“L’ultima Donna” graphic novel di Shirwan Can, a cura di Claudio Calia e Omar Martini

La storia di sette generazioni di una comunità destinata all’estinzione nella ricerca di spiritualità, uguaglianza e giustizia nel Kurdistan iracheno.

Il primo graphic novel di Shirwan Can, tradotta in italiano e curata da Claudio Calia e Omar Martini, ci tuffa in una mondo sconosciuto. Attraverso un racconto del reale, fatto della vita vissuta della protagonista, riattraversiamo i principali avvenimenti storici della zona del Kurdistan iracheno nel mentre ne conosciamo aspetti totalmente nascosti.

Uno sguardo altro che ci interroga sulla nostra ignoranza. Su quanto poco sappiamo di quello che hanno vissuto e vivono comunità di cui, nel migliore dei casi, sentiamo parlare superficialmente per frammenti di notizie dell’informazione mainstream.

Dietro le news, sempre più vorticose e frammentarie, che giungono da posti lontani come l’Iraq, si celano vissuti, esperienze, storie collettive che meritano di essere conosciute per comprendere quel che accade oggi.

Il prezioso lavoro che da anni Claudio Calia sta conducendo per far circolare i fumetti iracheni in Italia è un tassello importante per rompere i luoghi comuni e darci la possibilità di conoscere direttamente la complessità del mosaico iracheno.

La pubblicazione in Italia dell’opera di Shirwan Can si inserisce in questo solco: creare la possibilità di una relazione diretta, senza mediazioni, per costruire uno scambio reale.

INTERVISTA A SHIRWAN CAN

Shirwan Can (Suleimania, 1975) è docente dell’Accademia di Belle Arti di Suleimania nel Kurdistan iracheno. Nel 2018 ha dato vita al Karge Comics Studio, primo studio dedicato alla divulgazione e lo sviluppo del fumetto in Iraq.

Ha esposto le sue opere in Germania, Polonia, Inghilterra, Emirati Arabi, Iraq, Italia. The Last Woman: Journey to an Ultimate Truth è il suo primo graphic novel.

Shirwan è stato ospite a Padova nel 2019 per partecipare al Festival Be Comics dove è stata esposta per la prima volta in Italia una mostra dedicata al fumetto in Iraq, “C’è fumetto in Iraq?”.

Ci sono tante cose che esistono eppure non hanno un nome.
di Claudio Calia
Ho conosciuto Shirwan Can nel 2017, in occasione del mio secondo viaggio in Iraq.
Dopo il primo, avvenuto nel 2016, avevo realizzato il libro Kurdistan. Dispacci dal fronte iracheno (BeccoGiallo, 2017), e quando ci ritornai l’anno successivo incontrai Shirwan.
Non saprei ricostruire esattamente come avvenne, ma quando feci la sua conoscenza ebbi l’occasione di andare nello spazio della ex fabbrica di tabacco nel centro di Suleimania, un enorme luogo dove giovani in autogestione organizzano laboratori di teatro, danza, pittura, cinema, skateboard, e signori più attempati, provenienti prevalentemente dal vivace ambiente dell’Accademia di Belle Arti, organizzano una serie di studi professionali di arti grafiche fino a ospitare il Karge Comics Studio, il primo studio professionale di fumetto dell’Iraq.
Shirwan ha un percorso di formazione simile a quello di tanti curdi iracheni: la migrazione in clandestinità, l’accoglienza in Germania, la possibilità di studiare Arte in Europa, il ritorno a casa e l’inizio del lavoro come docente.
Ha un occhio curioso, Shirwan, e già in Germania aveva adocchiato le opere a fumetti di Stefano Ricci e Anke Feuchtenberger; soprattutto, era rimasto subito affascinato dalle potenzialità del fumetto come linguaggio.
Tenete presente che parliamo dell’Iraq, un paese in cui non esiste una scena editoriale dedicata al fumetto e dove non arrivano i libri “importanti” che leggiamo tutti.
Essendoci andato diverse volte ora so che l’appassionato può anche procurarsi, a prezzi altissimi, fumetti di importazione dagli Stati Uniti e dal Giappone, ma per darvi un’idea, la prima volta che abbiamo saputo che a Suleimania esisteva una fumetteria, siamo andati insieme a cercarla. Dopo una mezz’ora che ci trovavamo all’indirizzo giusto senza riuscire a vederla, ecco l’illuminazione: la “fumetteria” era composta da un paio di scaffali dedicati a fumetti di importazione in inglese, ospitati all’interno di una scuola di lingue. Quando sono tornato nel 2019, la fumetteria era cresciuta ed era ospitata, con qualche scaffale in più, in un grande spazio di co-working.
In Iraq ci sono andato la prima volta con Un Ponte Per, la ONG italiana che si occupa della ricostruzione di una società civile in un paese martoriato dalle guerre, e ho tenuto dei laboratori di fumetto in centri giovanili multiculturali, prevalentemente a soggetti (cittadini, sfollati interni, profughi dalla Siria) non direttamente interessati al fumetto.
Grazie all’incontro con Shirwan, ho potuto ampliare la mia attività con i corsi agli studenti dell’Accademia e, soprattutto, a ragazzi curdi e arabi già attirati da questo linguaggio, come per esempio il collettivo Mesaha di Bagdad, che si era già fatto notare in qualche festival in Europa e in Africa. Sono stato coinvolto nei lavori di Hiwa Foundation, una fondazione curda dedita al lavoro culturale, e così, fino al lockdown dovuto alla pandemia da Coronavirus, i miei viaggi in Iraq hanno cominciato a dividersi in due: attività a fumetti in campi profughi con Un Ponte Per e l’Associazione Ya Basta – Caminantes, e corsi alla scoperta del fumetto mondiale con studenti interessati, alcuni addirittura già coinvolti professionalmente nell’industria del charachter design per videogiochi. Nel frattempo, Shirwan lavorava a questo libro. Abbiamo passato molte sere, io con il mio spaghetti-english e lui con il suo curdo-tedesco, a raccontarcelo, editarlo, modificarlo: l’ho visto nascere fin dalle prime bozze.

In una delle nostre interminabili sere, abbiamo pensato alla parola “fumetto”. In curdo non c’è un termine univoco. Si usa “caricature” che, come intuibile, si riferisce più alle vignette di satira sui quotidiani. Dovevamo promuovere i nostri corsi, ma quale parola potevamo utilizzare? Graphic novel rischiava di non essere capito. Impugnai un fumetto, affascinato dallo stringere in mano qualcosa che non aveva un nome, e gli chiesi: «E allora come lo chiami questo?». E lui: «Hai presente che al supermercato c’è quella cosa di plastica che metti tra la tua spesa e quella del cliente che ti precede. Come si chiama?».Balbetto, non ho un termine pronto in italiano con cui rispondere, figuriamoci in spaghetti-english. E riprende: «Visto? Ci sono un sacco di cose che esistono eppure non hanno un nome».

Non lo so, come si chiamerà questo libro, una volta che sarà disponibile in curdo. Romanzo grafico, graphic novel, saggio a fumetti, libro illustrato… io, Shirwan e voi che, finalmente, lo potete leggere lo sappiamo bene: lui ha fatto un fumetto.
Claudio Calia

L’ultima donna di Shirwan Can
Pubblicazione realizzata nell’ambito del progetti:

Here Now Together – Social Arts con il contributo della Fondation Assistance Internationale – FAI

Arte per la coesione sociale con il contributo dellAzienda di cosmetici etici LUSH Italia
In collaborazione con Walking Arts – Art, Culture & Heritage e Associazione Ya Basta Caminantes ODV.


Realizzazione a cura di Oblò APS
Puoi ricevere il volume a casa tua.


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