Sta finendo un altro anno. Sono passati 6 anni dal 17 dicembre 2010, il giorno in cui in uno sconosciuto paesino del sud del paese, Sidi Bouzid, Mohamed Bouazizi si è dato fuoco in segno di protesta. Episodio che viene considerato l’inizio della Primavera Araba.
Da allora tanti avvenimenti hanno segnato la vita della Tunisia, segnata anche dai grandi rivolgimenti geopolitichi che stanno segnando l’intera area.
E’ un fine anno tra chiari e scuri.
Di certo non è cambiata la situazione economica: la crisi segna la dimensione sociale, la disoccupazione è costante così come la corruzione istituzionale.
In questo quadro, ben analizzato anche nel volume “Rivoluzione violate” curato da Osservatorio Iraq e Un Ponte Per…, ci sono sprazzi di democrazia, iniziative che tengono aperti spazi di libertà, una movimentazione sociale che cerca di resistere agli autoritarismi ed agli integralismi.
Se si sfogliano i giornali di questi giorni vi si trovano mobilitazioni e iniziative.
Il Sindacato UGTT ha lanciato uno sciopero generale del settore pubblico di farmacisti, avvocati ed insegnanti se il Governo non modificherà il suo piano salariale.
Per il 10 dicembre FDTES (Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux ) si prepara a mobilitarsi in occasione della Giornata Mondiale Dei Diritti Umani per chiedere al Governo di dare risposte urgenti alle situazioni delle categorie vulnerabili.
Alla mobilitazione parteciperanno disoccupati, familiari di chi è morto cercando di attraversare il Mediterraneo “per far sentire la loro voce e chiedere un miglioramento della situazione economica e sociale e anche la sospensione delle misure repressive contro chi protesta”.
Ci sono altri segnali che tengono aperti spazi di speranza.
Ci riferiamo ad esperienze significative come quella dell’autogestione dell’Oasi di Jemna, su cui vi proponiamo unarticolo di Ricard González tratto da El País.
In queste settimane l’autogestione di Jemna è sotto attacco da parte del Governo che non vuole riconoscerne la validità, consegnando i terreni a chi li sta coltivando e ha confiscato i conti bancari dell’associazione. Proprio a supporto dell’esperienza si è creata una grossa mobilitazione in tutto il paese.
Ci riferiamo anche alla spinta sociale che, nonostante le mille contraddizioni, ha conquistato il fatto che si avvii il processo dell’Istanza per la Verità e la Dignità, su cui vi proponiamo un articolo tratto da www.tunisiainred.org.
Sono queste donne ed uomini che noi vogliamo appoggiare e sostenere per contribuire ad un futuro diverso per il paese dei gelsomini, con progetti come “Donne attive“ dedicato a favorire il protagonismo sociale e l’emancipazione economica in primo luogo delle donne, avviando un percorso di professionalizzazione nel settore della promozione del territorio come contributo allo sviluppo economico della regione di Jendouba e dell’intero paese.
La Comune di Jemna
Un’esperienza di successo di una cooperativa fondata sul terreno confiscato dia coloni francesi in Tunisia.
Come molti altri villaggi del sud della Tunisia, Jemna è un’oasi tranquilla e polverosa. Un’area verde sulle sponde del Chott Al Djerid, un immenso lago salino di più di 5000 km². Dalle sue palme si ricavano datteri dalla fama internazionale. Tuttavia questo villaggio, in cui abitano 9000 anime, è anche conosciuto per il suo esperimento libertario: una cooperativa agricola, nata dal desiderio di rimediare ad una vecchia ingiustizia. Per questo alcuni la chiamano “La Comune di Jemna”. La lotta per recuperare le terre comunali usurpate dai coloni francesi nel XIX secolo, un esteso palmeto di 185 ettari dove crescono più di 10.000 palme da datteri, è stata molto lunga.
Attualmente l’unica traccia dell’epoca coloniale è il Burj Merillon, un edificio semplice ma elegante situato all’entrata della tenuta. Dopo l’indipendenza del 1956, il terreno passò in mano allo Stato, che decise di assegnarlo ad un’impresa pubblica ignorando le richieste dei locali, i quali avevano raccolto 40.000 dinari per comprarlo, una cifra molto alta per l’epoca.
Tuttavia il governo autocratico presieduto da Habib Bourguiba utilizzò i fondi raccolti per investirli in progetti di sviluppo della zona, che si sono rivelati un fallimento.
Nel 2002 le antiche terre di proprietà comunale furono affittate ad una cifra irrisoria a due investitori privati strettamente legati al regime del dittatore Ben Alì. Uno di questi, Zeituni Chaferdìn, era il fratello del capo della Guardia Nazionale.
Il 12 Gennaio del 2011, durante la prima rivolta della Primavera Araba, i palmeti sono stati occupati. Anche se gli imprenditori riuscirono ad inviare l’esercito per riconquistarli, gli abitanti riuscirono a mantenere il controllo sulle terre dopo un tumulto di 96 giorni.
Negli ultimi cinque anni, i nuovi gestori sono stati capaci di migliorare il rendimento delle terre dedicate esclusivamente alla produzione di datteri. Secondo le dichiarazioni di un lavoratore della vecchia amministrazione al giornale locale “Nawat”, questo sfruttamento agricolo generò nel 2010 quasi mezzo milione di dinari (circa 240.000 euro). Nel 2011 con i nuovi proprietari la cifra si avvicinò ad 1 milione e l’anno dopo a 1,8 milioni (circa 900.000 euro).
Questo incremento ha permesso di passare da una ventina di lavoratori residenti nel villaggio a 144, i ricchi imprenditori erano soliti portare operai da altre tenute nel periodo del raccolto.
“L’aumento della produzione si deve alla maggiore attenzione alla terra e a un aumento degli investimenti. Per esempio, abbiamo scavato due nuovi pozzi, passando da 8 a 10”, ha spiegato Tahar al Tahri, presidente dell’Associazione per la Difesa dell’Oasi di Jemna, l’ente gestore della difesa del palmeto. In questi anni, non solo la piantagione è cresciuta, ma anche i salari.
“Sono contento per la nuova gestione. Prima del 2010 guadagnavo 180 dinari al mese. Adesso ne guadagno 400”, spiega Mohammed, un uomo dagli occhi piccoli con indosso un turbante. A 58 anni questo contadino ha lavorato fin da bambino nell’irrigazione del palmeto, che richiede un’attenzione giornaliera.
Negli ultimi 5 anni i nuovi gestori sono stati in grado di migliorare il rendimento del terreno, dedicato alla produzione di datteri. L’esperienza di Jemna rappresenta una speranza per un paese che ha un problema cronico di disoccupazione.
Secondo alcuni studi, circa il 50% dei giovani delle regioni tradizionalmente marginali rispetto al centro e il sud del paese non ha occupazione. In Gennaio in queste zone sottosviluppate, si diffuse una potente ondata di proteste da parte dei giovani disoccupati che ha messo in scacco il governo, forzandolo a dichiarare il coprifuoco in tutta la nazione.
Tra le formule che suggerirono i movimenti dei disoccupati, figura la distribuzione delle vecchie terre comunali che, come a Jemna, lo Stato trattenne dopo l’indipendenza e che sono attualmente poco sfruttate.
“La distribuzione delle terre non può essere l’unica soluzione al nostro problema, però aiuterà a mitigarlo, e per questo è una delle domande che abbiamo fatto arrivare al governo”, afferma Waji Jadraui, leader del movimento dei disoccupati di Kaserine, che da circa due mesi vive con altri quaranta ragazzi accampati davanti alla sede del Ministero del Lavoro.
“La fondazione delle cooperative in queste terre potrà aiutare a risolvere il problema della disoccupazione, visto che né lo Stato né il settore privato sembrano in grado di farlo”, sostiene Abdejelil Bedui, un economista del Foro Tunisino per i Diritti Economici e Sociali. “In parte, il problema è che la legislazione tunisina non riconosce in maniera esplicita la figura delle cooperative. È necessaria una nuova legge”, aggiunge.
Bedui ammette che le reticenze non solo provengono dallo stato, ma anche da una buona parte della popolazione a causa del brutto ricordo delle cooperative statali promosse dal regime di Bourguiba negli anni sessanta, che fallirono a causa della loro eccessiva burocratizzazione.
L’esperienza di Jemna risulta positiva per un paese che ha un problema cronico di disoccupazione.
Al momento il governo ha ignorato le domande degli abitanti di Jemna che esigono il riconoscimento legale delle loro proprietà nel palmeto.
Cinque anni dopo la rivoluzione, la Comune di Jemna opera tuttavia ai margini della legge e pertanto non può assicurare la previdenza ai proprio lavoratori. Al suo posto i lavoratori ricevono un assegno come lavoratori autonomi.
“Noi ci siamo riuniti con i diversi governi che si sono susseguiti negli anni. Tutti ci hanno promesso che risolveranno la nostra situazione, ma alla fine, nessuno ha fatto niente”, lamenta al Thari in un eccellente francese. Non a caso, prima della pensione è stato professore di francese per decenni.
Le entrate eccedenti vengono investite in infrastrutture pubbliche o vengono date a ONG. Alla radice del conflitto c’è il fatto che i due impresari che affittarono la terra nel 2002 per 15 anni non si sono rassegnati a perdere il loro diritto sulla terra e accusano i vicini di Jemna di averla rubata.
Tuttavia questi replicano che il contratto di affitto debba essere considerato invalido perché frutto di una trattativa corrotta, e che il suo prezzo (14.000 dinari all’anno) fosse irrisorio. Al momento la giustizia ha dato ragione ai locali, che sono stati assolti in giudizio.
“Crediamo che la soluzione al nostro problema non debba essere di natura giuridica ma politica”, sostiene al Thari protagonista di molte battaglie sociali e politiche, durante la dittatura fu un leader sindacale e responsabile regionale della Lega Tunisina per i Diritti Umani, recente vincitrice del Nobel per la pace e grande oppositore del dittatore Ben Alì. Dopo la rivoluzione le autorità proposero ai vicini dell’oasi la concessione della metà del terreno come soluzione di compromesso, questi rifiutarono l’offerta. Non vogliono restituire nemmeno un metro quadrato del territorio che hanno sempre considerato come proprio. Nonostante si chiami “Comune di Jemna”, sul funzionamento interno non è nei canoni dell’ortodossia libertaria.
La gestione del palmeto ricade nella commissione esecutiva dell’Associazione per la Difesa dell’Oasi di Jemna, che non è mai stata eletta democraticamente, ma che è formata dai locali considerati più capaci, la maggior parte dei quali professori e laureati. L’Associazione ha suffragato una polisportiva e le nuove aule delle scuole primarie pubbliche.
“Nessuno di noi riceve un centesimo. Lo facciamo in forma disinteressata. Della gestione si incarica di giorno in giorno un supervisore che riceve un salario”, spiega al Thari, che nega il fatto che i lavoratori non abbiano capacità di influire sul futuro dell’ente.
“Le decisioni importanti le prendiamo per consensi in un’assemblea aperta a tutti, non solo tutti i lavoratori ma anche tutti gli abitanti del villaggio, perché la nostra vocazione è quella di servire la comunità”, argomenta il veterano sindacalista al Thari. Di fatto, non hanno scopo di lucro, una volta pagati i salari e comprati i macchinari necessari, le entrate eccedenti vengono investite per finanziare le infrastrutture pubbliche o vengono date a ONG, come l’Associazione dei Malati di Cancro della città di Gafsa. Come dimostrazione di trasparenza, ogni anno un gestore realizza un incontro pubblico e indipendente in cui viene dichiarato il bilancio dell’associazione.
Paradossalmente, questo ente agisce al di fuori della legge, le istituzioni pubbliche beneficiano dei progetti comunitari. Per esempio il municipio è il proprietario del nuovo mercato municipale coperto, che costò circa 250 mila euro, finanziati integralmente dalla associazione. A questo mercato partecipano commercianti di tutto il paese in cerca del prezioso dattero di questa regione. L’associazione ha anche suffragato una polisportiva per l’istituto secondario, ancora in costruzione, e le nuove aule delle scuole pubbliche di educazione primaria. La lista viene completata da un’ambulanza e stampanti per il commissariato di polizia.
“Siamo molto grati all’associazione. Oltre a una nuova aula hanno edificato anche nuovi lavabi e muri esterni che erano in uno stato di degrado” dice Guelali Jahar, direttore da tre anni di una delle scuole primarie, frequentata da 425 bambini e bambine. In una parete del cortile al cui centro si eleva un’asta con la bandiera tunisina, c’è una mappa recentemente colorata con le diverse province del paese. Tra queste molte buone cose c’è una lacuna: non conta nessuna donna tra tutti 144 lavoratori.
“Questa è una provincia molto conservatrice e poche donne lavorano fuori casa. Non è che noi non le vogliamo assumere”, si giustifica al Thari con un gesto che denota un certo disagio.
L’esemplare comune di Jemna tiene ancora una causa pendente.
Tunisia: Giustizia di transizione e dittatura di Santiago Alba Rico (traduzione a cura di Giovanna Barile).
Nel bel mezzo del caos regionale e dello sgomento generale, la piccola e dimenticata Tunisia continua ad offrirci buone notizie. La settimana scorsa gli stessi tunisini si sono ritrovati sorpresi -scossi, colpiti, commossi– dalle testimonianze di torture e sparizioni rese a voce alta dalle vittime delle due dittature (quella di Bourguiba fino al 1987 e quella di Ben Ali fino al 2011) e trasmesse in diretta da quattro emittenti televisive. Si è trattato di due sessioni di quattro ore ciascuna, andate in onda giovedì 17 e venerdì 18 nell’orario di massimo ascolto; i singoli cittadini le dimenticheranno più o meno in fretta, ma esse rappresentano il superamento di una soglia simbolica dalla quale difficilmente si potrà tornare indietro.
Creata come istituzione dello Stato nel dicembre 2013 dall’allora governo di coalizione guidato di Ennahda, l’Istanza per la Verità e la Dignità, il cui mandato è quello di facilitare il percorso della giustizia transizionale, ha ricevuto 62.000 denuncie di torture e sparizioni ed ha registrato 11.000 testimonianze. Alcune di queste testimonianze, trasmesse in diretta, sono state rese nel club Elyssa di Sidi Bou Said, ex residenza privata di Leila Trabelsi, moglie dell’ex dittatore, trasformata per l’occasione nello scenario simbolico di questa “terapia di gruppo”, come dirà il giornalista Riadh Guerfali, “contro la barbarie presente e futura”.
Non è stato facile arrivare fin qui. Nel corso dei suoi tre anni di vita, l’Istanza per la Verità e la Dignità (IVD) si è vista intralciare e perfino sabotare il lavoro di raccolta di informazioni da parte dell’ancien régime, oggi riciclato nel governo di Nidaa Tounes con la figura del Presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, ministro dell’interno di Bourguiba negli anni in cui la polizia torturava gli esponenti di sinistra del gruppo Perspectives. Allo stesso modo, politici e mass media vicini al governo hanno continuato ad inveire nel peggiore dei modi contro la presidente dell’IVD, Sihem Bensedrine, prestigiosa oppositrice di Ben Ali, qualificata da sinistra e da destra come “revanscista”, “islamista”, “immorale”, incapace” e perfino “pazza”. Il portabandiera di questa campagna contro Bensedrine è stato il popolare quotidiano Achruq, che l’ha accusata di fomentare -e come no!- la “fitna” o “guerra civile”, in buona compagnia del sempre filogovernativo La Presse che fin dal principio ha messo in discussione la sua “neutralità” e la sua “capacità” di conciliare il “rispetto verso le vittime” con la “responsabilità politica” e la necessità di “non aprire ferite”. L’IVD ha dovuto abbandonare, durante il suo cammino, anche il tentativo di approvare la cosiddetta “legge di riconciliazione”, ovvero una dichiarazione ufficiale di “punto finale” e riabilitazione del vecchio regime, fortunatamente seppellita dalla mobilitazione cittadina.
E’ anche necessario aggiungere, come espressione finale di questa delegittimazione dell’IVD e della sua presidenza, che il governo non ha autorizzato l’utilizzo del Palazzo dei Congressi per le udienze pubbliche; inoltre, mentre i dirigenti di Ennahda e del Fronte Popolare erano presenti in prima fila, nè il Presidente della Repubblica, nè il Primo Ministro, nè il Presidente del Parlamento -tutti membri di Nidaa Tounes- hanno risposto all’invito di Sihem Bensedrine, la quale è stata tagliente nell’additare le responsabilità politiche: “Vogliono ricostruire lo Stato di Ben Ali; non vogliono la nostra Costituzione”. Per rispondere alle accuse di revanscismo, la Presidente dell’IVD ricorda che solo cinque delle 11.000 vittime già ascoltate hanno deciso di intentare una causa penale; la schiacciante maggioranza è invece disposta a perdonare se i suoi torturatori chiedono perdono. E’ questa, ad esempio, la posizione di Sami Brahem, prigioniero politico ed oggi ricercatore presso il Centro di Studi Economici e Sociali, il quale durante la sessione di giovedì scorso ha chiuso la sua testimonianza invitando i suoi torturatori a presentarsi il giorno dopo e chiedere scusa per quello che hanno fatto. Eppure, lamenta Bensedrine, tutte le richieste di riconciliazione e arbitrato presentate dalle stesse vittime al Ministero dell’Interno sono state respinte: “Si trincerano dietro il negazionismo”.
Quel che è certo è che le storiche audizioni della scorsa settimana illuminano un paese diviso: diviso tra boia e vittime. Le vittime -tra le quali l’IVD riconosce anche quelle “collettive”, comprese alcune regioni- sono vittime, continuano ad esserlo, perchè non hanno ancora potuto parlare e finchè non potranno parlare. Bisogna lasciare che lo facciano. Come dichiarava compostamente e senza lacrime Ourida Kaddouss, il cui figlio fu ucciso a Regueb durante la repressione del 2011,
“è mio figlio che vi ha dato la democrazia. Mio figlio è morto in Tunisia e per la bandiera tunisina e voglio che gli venga resa giustizia”.
Commozione fra il pubblico Crédit photo: Instance Verité et Dignité Media Center
Le madri trasmettono un dolore con il quale è facile immedesimarsi. E’ anche il caso di Kamel Matmati, scomparso nel 1991 e morto sotto tortura pochi giorni dopo la sua sparizione, ma la cui morte è stata ufficializzata solo nel 2016. I familiari non hanno ancora potuto seppellirlo:
“Vogliamo che ci restituiscano il corpo” e che i colpevoli ne rendano conto”.
Oltre il già citato Sami Brahem, torturato per otto anni sia nel Ministero dell’Interno che in carcere e in tutti i modi possibili e al quale ciò che ancora fa più male è “lo schiaffo umiliante di Bokassa” (nome di guerra di uno dei torturatori), un cenno a parte merita la deposizione di Gilbert Naccache, noto intellettuale, scrittore e militante di sinistra, fondatore del gruppo Perspectives, che ha trascorso undici anni nelle prigioni di Bourguiba. La sua testimonianza ha offerto al pubblico un’analisi storica della continuità tra le due dittature e tra queste e l’occupazione francese:
Gilbert Naccache dona la sua testimonianza, 17 novembre 2016 crédit photo: IVD Media Center
“la ‘modernizzazione’ della Tunisia fu in realtà un prolungamento del colonialismo”.
Naccache, che si unì alla rivoluzione del 2011 e che da allora non ha smesso di lottare contro i suoi riflussi, ha dichiarato solennemente:
“Una giornata come questa compensa, da sola, molte delle frustrazioni degli ultimi cinque anni”.
Le audizioni pubbliche dell’IVD, che riprenderanno a dicembre, non serviranno a risolvere i problemi economici e politici della Tunisia. Non elimineranno la corruzione, la disparità tra le regioni, la disoccupazione giovanile o l’inflazione e il debito; e nemmeno aboliranno quelle confische di lbertà che, con il pretesto della lotta al terrorismo, la popolazione sta drammaticamente interiorizzando. Ma ci sono situazioni nelle quali i simboli diventano carne e producono effetti; ancor più quando trovano una così forte opposizione da parte di un ancien régime che rivela, in tal modo, la sua potente esistenza dietro le quinte.
L’avvio pubblico della giustizia transizionale deve servire ai tunisini per ottenere almeno tre cose. La prima, come ricordava Sihem Bensedrine, è frenare la nostalgia della dittatura, crescente e direttamente proporzionale al peggioramento delle condizioni di vita, e allontanare qualunque futura tentazione dittatoriale. La seconda, strettamente connessa a questa, è ricordare che la tortura non è qualcosa che appartiene al passato: ancora oggi, secondo la OCTT (Organizzazione contro la Tortura) continua ad essere la routine nei commissariati e nelle carceri del Paese. E nessuna minaccia alla sicurezza può renderci tolleranti o indifferenti di fronte a questo.
C’è poi un terzo dato importante. Lo segnalava a ragione Patrizia Mancini, giornalista italiana residente a Tunisi e responsabile del sito web Tunisia-in-red:
“La voce delle vittime è riuscita a riscattare dall’oblio nel quale erano cadute le parole della Rivoluzione: lavoro, libertà, dignità”
Rivivendo il dolore sereno dei torturati, i tunisini hanno rivissuto anche la lunga lotta contro i carnefici, sfociata nella sollevazione collettiva del 2011, in quelle giornate di esaltazione comune la cui esistenza viene a volte messa in dubbio e che molti cittadini di questo Paese cominciavano a voler dimenticare. “La rivoluzione è ancora viva”, ha concluso la sua testimonianza Gilbert Naccache. E questa frase, come quelle degli altri testimoni, la riportano in vita. Della piccola e dimenticata Tunisia si parla sempre come di un “simbolo”: dove iniziò la “primavera araba”, dove resiste la democrazia. E’ un simbolo, sì, ma anche una lezione che alcuni Paesi più grandi dovrebbero apprendere. La giustizia, si dice, è un diritto delle vittime; ma si dimentica che è soprattutto un diritto dei carnefici, che grazie ad essa possono essere reinseriti nel seno del nuovo contratto sociale e della vita pubblica. Senza il riconoscimento delle vittime, senza il riconoscimento dei carnefici, non può esserci una vera riconciliazione né una vera democrazia. Se non si può dire a voce alta -e non tutte le istituzioni lo fanno- “qui c’è stata una dittatura”, vuol dire che quella dittatura non è stata completamente superata.