I riflettori internazionali si sono riaccesi un attimo sul paese dei gelsomini con l’attribuzione del Nobel per la Pace 2015 al “National Dialogue Quartet”, ovvero UGTT, Union Générale Tunisienne du Travail, sindacato generale, UTICA, Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat, confederazione industriale e del commercio LTDH, La Ligue Tunisienne pour la Défense des Droits de l’Homme, lega dei diritti umani e Ordre National des Avocats de Tunisie, ordine degli avvocati, per il ruolo di “di mediatori nel portare avanti il processo di sviluppo democratico tunisino”.
Al di là di chi riceve il premio, quello che fa della Tunisia un paese che, pur tra mille contraddizioni, continua a mantenere aperta una speranza ed una possibilità di cambiamento in un quadro globale sempre più cupo fatto di autoritarismi ed integralismi, sono gli attivisti, i giovani, le donne che non cessano dal basso di mobilitarsi.
L’ultima campagna che, partita nei social, si è estesa, imponendosi all’attenzione generale riguarda un argomento quanto mai scabroso e taciuto nei paesi arabi: l’omosessualità.
La vicenda che ha scatenato la protesta è quella di un giovane di 22 anni convocato al commissariato di Hammam Sousse (Governatorato del Nord Est di Soussa) il 6 settembre, poi messo in arresto con l’accusa di omosessualità e immediatamente condotto in ospedale per realizzare un test anale senza il suo consenso.
A partire dalla denuncia dell’associazione Damj, Associazione Tunisina per la Giustizia e l’Uguaglianza che storicamente difende le minoranze sessuali, è partito il tam tam nei social che ha portato ad un intenso dibattito pubblico sul tema dell’abrogazione dell’articolo 230 del Codice Penale che penalizza l’omosessualità, costringendo man mano associazioni, categorie come i medici, esponenti politici a prendere posizione su un argomento considerato tabù.
Non solo come descrive Debora del Pistoia in un esaustivo articolo che vi proponiamo di seguito tratto da Osservatorio Iraq la vicenda dimostra la volontà e determinazione, questa volta a partire di gruppi LGBT, soprattutto tra i giovani di non accettare l’impunità e gli abusi degli “uomini in divisa” e di sfidare l’autoritarismo che accompagna oggi la vita del paese, dove ricordiamo in nome delle leggi antiterrorismo è vietato manifestare e scioperare.
Tornado al Nobel vi proponiamo un articolo di Giuliana Sgrena che contestualizza la storia del “quartetto” a cui è andato il premio e condividiamo le parole della blogger Lina Ben Menhi “Sono molto fiera e molto felice per la Tunisia, come la maggioranza dei tunisini che nonostante le divisioni hanno a cuore il loro Paese. Ma questo Nobel non significa che possiamo riposarci: la strada è ancora lunga e i tunisini sono pronti ad altri sacrifici per raggiungere la piena libertà e la dignità”.
Da parte nostra siamo dalla parte di chi non si riposa, non accetta di piegarsi e conformarsi e continua nel paese dei gelsomini ad essere in movimento.
Nobel per la pace alle forze vive della Tunisia
di Giuliana Sgrena
«Il mio primo pensiero va ai martiri della rivoluzione, a Chokri Belhaid, Mohamed Brahmi e a tutte le vittime del terrorismo. Siamo fieri che i nostri sforzi siano stati riconosciuti, sono gli sforzi del Quartetto e di tutto il popolo tunisino», questa la reazione immediata di Ali Zeddini dell’Esecutivo della Lega tunisina per i diritti dell’uomo alla notizia del Premio Nobel per la pace.
Il premio al Quartetto tunisino va persino al di là delle motivazioni degli assegnatari di Oslo «per il suo contributo decisivo nella costruzione di una democrazia pluralistica dopo la rivoluzione cosiddetta dei “gelsomini” del 2011». Per i tunisini è un premio alla loro rivoluzione, ai tentativi di salvarne di obiettivi nonostante tutti gli ostacoli. Tra le rivolte arabe quella tunisina è stata infatti l’unica a intraprendere una strada per la transizione alla democrazia e a resistere in una regione infuocata: dalla Libia alla Siria passando per la Palestina. Sono ormai lontani i tempi in cui il premio per la pace veniva assegnato ad Arafat e Rabin (1994) per un accordo che non ha mai portato a una soluzione di quel conflitto. Anzi.
La Tunisia è però un’altra storia, anche se non è stata risparmiata dagli attacchi terroristici. Proprio alla vigilia del premio Ridha Charfeddine, deputato di Nidaa Tounes (il partito laico di centro), è sfuggito miracolosamente a un attentato.
Il ruolo del Quartetto – composto dall’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt), dall’Unione tunisina dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (Utica), dalla Lega tunisina dei diritti dell’uomo (Ltdh) e dall’Ordine nazionale degli avvocati -, formato nell’estate del 2013 in un clima di forti tensioni politiche, è stato decisivo per evitare che il paese precipitasse in una guerra civile.
La troika, al potere dal dicembre 2011, aveva perduto ogni legittimità a causa del suo malgoverno e dei continui abusi di potere. Composta dagli islamisti di Ennahdha, che avevano vinto le elezioni e che guidavano il governo, dai laici del Congresso per la repubblica (presidenza della repubblica) e da Ettakatol (presidenza dell’assemblea costituente), aveva un anno di tempo per varare una nuova costituzione. Ma i lavori della costituente non avanzavano e la troika non voleva lasciare il potere.
La crisi economica e politica era precipitata dopo gli assassini dei leader della sinistra (Chokri e Brahmi) e aveva spinto i tunisini a scendere in piazza con sit-in davanti all’Assemblea costituente durati settimane. Alla fine la costituente sospendeva i lavori.
Gli islamisti si erano organizzati per scontrarsi con l’opposizione laica, dotandosi della Lega per la protezione della rivoluzione (che con la rivoluzione non aveva nulla a che vedere), braccio armato di Ennahdha. Per far fronte a questa situazione si era formato il Quartetto, con un ruolo importante del sindacato già punto di riferimento nella rivoluzione. L’obiettivo: sostituire il governo della troika con uno tecnico per arrivare alle elezioni e nel frattempo accelerare l’elaborazione della costituzione. Il Quartetto aveva preparato una road map ma il premier islamista Ali Larayedh e il presidente Marzouki hanno tergiversato per settimane, poi forse è stato l’effetto Egitto (dove l’esercito aveva preso il potere) a farli cedere e in dicembre è stato nominato il governo di transizione guidato da Mehdi Jomaa. Gli islamisti hanno dovuto cedere le loro posizioni anche all’interno dell’Assemblea costituente dove volevano imporre alcuni principi della sharia (la legge coranica) e soprattutto riconoscere i diritti delle donne solo complementari a quelli dell’uomo. Questi tentativi sono stati battuti e la costituzione è stata finalmente varata (gennaio 2014).
Il compito del Quartetto si è concluso con le elezioni nell’autunno del 2014: il 25 ottobre le politiche hanno visto la vittoria di un partito laico, Nidaa Tounes, seguito da Ennahdha, mentre gli alleati della troika sono praticamente scomparsi. Alle presidenziali il presidente uscente Moncef Marzouki (appoggiato dagli islamisti) ha perso il ballottaggio (22 dicembre) vinto dal leader di Nidaa Tounes, Beji Caid Essebsi.
Quello che non aveva fatto il Quartetto l’hanno decretato le urne.
Il premio Nobel per la pace è un riconoscimento a organizzazioni della società civile, per usare una definizione abusata, o alle forze vive della società, per utilizzare un termine più tunisino, che subito hanno voluto estenderlo a tutti i tunisini, a tutte quelle forze che continuano a lottare per la democrazia e per i diritti di uomini e donne. E devono fare i conti con attacchi terroristici che mirano a sovvertire la fragile democrazia, minacciata anche da quelle forze, come Ennahdha, che si rifiutano di riconoscere il carattere repubblicano dello stato tunisino.
Tratto da Il Manifesto 10 ottobre 2015
Tunisia. Il processo della vergogna
Un giovane di 22 viene condannato per omosessualità: succede nella Tunisia post-rivoluzionaria, in cui la nuova Costituzione “modernista” non tutela i cittadini, ma delega alla polizia poteri incontrollabili. Per la comunità LGBT la battaglia è ancora lunga.
Succede oggi in Tunisia. E’ martedì 22 settembre quando un giovane tunisino di 22 anni viene condannato in prima istanza ad un anno di carcere per omosessualità, provata attraverso un’analisi anale.
Una decisione che ricorda che l’omosessualità resta un crimine nella Tunisia post-rivoluzionaria, e che scatena un forte dibattito mirato a sottolineare le contraddizioni legislative e le violazioni permesse da una normativa che viola il rispetto della vita privata.
Pratiche ancora possibili a causa di leggi retrograde e desuete – in piena contraddizione con la nuova Costituzione “modernista” – e che delegano alla polizia un potere giudiziario ed esecutivo incontrollabile. Uno Stato moralizzatore che si impone per punire chi trasgredisce il valore della morale pubblica reazionaria, si dimostra complice di gravi attacchi all’integrità morale e fisica dei cittadini, superando le prerogative legali e la protezione garantita dalla Costituzione.
Mentre il paese cerca con i denti di trattenere saldo il processo rivoluzionario, la grande battaglia si gioca anche sui diritti personali.
La vicenda di cui è stato vittima il giovane tunisino è emblematica e racconta lo stato del dibattito nel paese sulle libertà sessuali e le pratiche poliziesche ancora in vigore.
Secondo Badr Baabou, presidente di Damj (l’Associazione Tunisina per la Giustizia e l’Uguaglianza), che storicamente difende le minoranze sessuali in Tunisia ed è stata la prima ad aver ottenuto il riconoscimento nel 2011, il giovane sarebbe stato convocato dal commissariato di polizia di Hammam Sousse (Governatorato del Nord Est di Soussa) il 6 settembre per testimoniare in un affare legato ad un omicidio.
Arrivato al commissariato di polizia, sarebbe stato messo in arresto con l’accusa di omosessualità e immediatamente condotto in ospedale per realizzare un test anale senza il suo consenso.
Sarebbe infatti stato obbligato e torturato per realizzarlo. Secondo le testimonianze dell’associazione Damj, il sospetto della sua omosessualità sarebbe stato fatto risalire ad alcuni messaggi intimi scambiati con un altro uomo. Nel corso di una detenzione di 6 giorni il giovane sarà poi interrogato sotto tortura a proposito della sua presunta omosessualità e inquisito sulle sue pratiche sessuali giudicate “non conformi”. L’11 settembre sarà poi il momento dell’interrogatorio del Procuratore della Repubblica, per finire al Tribunale di prima istanza di Soussa il 15. Il processo sarà poi rimandato al 22 settembre.
Il giudice avrebbe infatti atteso il risultato dell’ispezione anale a cui sarebbe stato obbligato a sottoporsi il giorno precedente il ragazzo, e realizzato dal servizio di medicina legale di Soussa. Il giovane non sarebbe stato quindi colto in fragrante “delitto”, ma condotto in commissariato con la scusa di una testimonianza.
Dinamica che non sorprende considerando le derive repressive e reazionarie del ministero degli Interni. Ma a permettere alle autorità di dimostrare una prova pratica della sodomia sarà poi il test anale, pratica che in molti denunciano per la violazione dell’integrità fisica della persona e per la brutalità con la quale viene ancora oggi condotta.
Tra criminalizzazione anticostituzionale delle libertà sessuali e soprusi
La vicenda mette a nudo le contraddizioni della legislazione tunisina sulla libertà sessuale e la criminalizzazione dell’omosessualità, tra un Codice penale desueto (risale al 1913) e la nuova Costituzione, considerata esemplare ma rivelatasi ancora lacunosa e inapplicata nella difesa delle libertà e dei diritti individuali.
L’articolo 230 del Codice penale, che criminalizza l’omosessualità prevedendo pene fino a 3 anni di carcere, è stato da tempo rimesso in discussione per sua incostituzionalità.
Come emerge nell’analisi di Inkyfada, la versione araba e quella francese differiscono. Se la versione francese parla di “sodomia”, quella araba si riferisce invece a “omosessualità femminile e maschile”.
Facendo fede la versione araba nell’ordinamento tunisino, la legge criminalizza quindi sia l’omosessualità femminile che quella maschile.
Secondo la legge, si definisce omosessualità “qualsiasi atto concesso tra due adulti consenzienti e in privato”. In questo caso, quindi, l’articolo 230 non si applicherebbe. Il Codice penale criminalizza quindi gli atti praticati in privato, con una disposizione che però rischia di provocare gravi violazioni dell’integrità fisica e della dignità umana, lasciando campo libero alle autorità giudiziarie per provare l’esistenza di relazioni sessuali, compresa la perquisizione del domicilio o la realizzazione di analisi mediche fisiche alle persone sospette.
L’articolo menzionato deve essere analizzato insieme alle disposizioni della nuova Costituzione tunisina, approvata nel gennaio del 2014, che dichiara lo Stato garante della protezione della sfera privata di cittadine e cittadini, e di conseguenza della loro vita sessuale, l’aspetto più sacro.
La pratica del test anale tradisce quindi lo spirito costituzionale e rimette in luce le pratiche barbare esistenti. Sebbene si tratti di un esame usuale di pratica medico-chirurgica utile nel diagnosticare determinate patologie, la sua realizzazione dovrebbe avvenire solo in caso di vittime di aggressioni sessuali per provare la violenze e dopo aver ottenuto l’esplicito consenso della persona interessata.
La stessa Commissione Internazionale di lotta contro la Tortura delle Nazioni Unite ha considerato nel 2014 questo tipo di test medico come un atto di tortura perché viola l’integrità fisica delle persone con lo scopo di verificare la loro verginità o l’eventuale consumazione di rapporti anali, aldilà dei casi di violenza.
Inkyfada ricorda anche che secondo l’articolo 49 della Costituzione, la legge può fissare delle restrizioni relative ai diritti e alle libertà e al loro esercizio come garantiti dallo stesso testo. Queste restrizioni possono essere stabilite in caso di reato contro la morale pubblica, che si esplicita solo in uno spazio pubblico e che quindi non riguarda il caso criminalizzato dall’articolo 230 del Codice penale, che si riferisce invece ad un atto praticato in privato.
La contraddizione è quindi evidente dalla lettura dei due testi.
Reattività e dinamismo delle associazioni e della comunità LGBT tunisina
La reazione della società civile e degli internauti di fronte al caso non si è fatta attendere. Se la notizia della condanna era prevedibile come per tutti i casi legati all’omosessualità, da subito l’affare ha generato una mobilitazione importante, per il momento solo virtuale, per denunciare come in Tunisia sia ancora oggi possibile che la polizia giudiziaria richieda imperativamente un test anale per indagare sulla sessualità di cittadine e cittadini e per allertare l’opinione pubblica sulle pratiche di ordinaria repressione della diversità e delle libertà sessuali.
A lanciare la denuncia sono varie associazioni per i diritti umani e altre rappresentative della comunità LGBT in Tunisia, molte delle quali represse fino ad oggi e che hanno finalmente deciso di esporsi.
Tra le prime a reagire con un comunicato stampa sono state l’associazione DAMJ, l’Association de soutien des minorités, l’Association Shams e l’Association Without Restriction.
Le stesse avevano già preso posizione e promosso una raccolta di firme nel maggio 2015 per l’abolizione dell’articolo 230 del Codice penale e contro la violenza sociale e politica verso la co-munità LGBT. La petizione ha ad oggi raccolto circa 2500 firme ed è ancora disponibile (qui). Ma la sfida rimane aperta e l’assenza, ad oggi, di una Corte Costituzionale in Tunisia fa presagire tempi molto lunghi per un’eventuale revisione del testo.
Nei giorni successivi all’arresto del giovane, l’associazione DAMJ ha lanciato una campagna sui social media stimolando la mobilitazione contro quello che viene già definito “il processo della ver-gogna”.
Le parole d’ordine sono No al test della vergogna! e No all’articolo 230! e si riassumono nell’hashtag #TestanalHontenationale (“Test anale onta nazionale”).
L’associazione Shams per la depenalizzazione dell’omosessualità in Tunisia, ha rilanciato promuovendo un evento su Facebook dal titolo “No agli esami della vergogna!”, spingendo alla massima mobilitazione per fare pressione prima che si celebri la sessione di appello.
Anche il Comitato per le Libertà e il Rispetto dei Diritti Umani in Tunisia (CRLDHT) richiede la liberazione immediata del giovane e l’apertura di un’inchiesta sulle circostanze dei trattamenti umilianti ai quali è stato sottoposto, come la cessazione degli esami medici e il rispetto della dignità e della vita privata di ogni individuo.
Oltre a denunciare la pratica del test e la violazione dei diritti umani ad esso connessa, le associazioni ricordano che tale analisi viola la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti ratificata dalla Tunisia nel 1988.
Allo stesso modo, le associazioni rivendicano una presa di posizione da parte dell’Ordine dei Medici contro tale pratica, contraria al Codice deontologico professionale, che definisce la dignità del paziente un principio inviolabile. Alcuni medici legali hanno risposto, esponendosi sui propri profili Facebook.
In primis, gli appelli esortano i medici a rifiutarsi di compiere l’esame e i membri del Consiglio dell’Ordine dei Medici ad aprire un’inchiesta sulla pratica effettuata contro il consenso della vittima, giudicando i responsabili. Si ricorda inoltre come l’aver effettuato l’esame sia contro la legge, non trattandosi di un caso di violenza (tra l’altro l’ordinamento tunisino prevede che le vittime di violenza siano solo di sesso femminile, un’altra aberrazione della legislazione) e non soffrendo la vittima di patologia legata alla zona analizzata. Per il momento, l’Ordine non ha replicato.
l coinvolgimento dei medici nella campagna per la difesa dei diritti delle minoranze appare oggi fondamentale, come già la storia del Libano ci ricorda. Le associazioni LGBT avevano infatti a lungo militato per convincere i medici ad astenersi dalla pratica del test e questo processo aveva dato ragione delle rivendicazioni.
Una lunga battaglia anche culturale
Questo evento continua ad acquisire visibilità e a suscitare indignazione, dimostrando un lieve cambiamento nella percezione dei tunisini sulle questione dei diritti LGBT e dimostrando nuovamente che la società civile è vigile per la protezione dei diritti umani e desiderosa di godere delle libertà conquistate.
In molti la definiscono però un’indignazione parziale e ricordano che parlare di libertà sessuali e di omosessualità in Tunisia resta ancora un tabu.
Secondo Baabou è urgente fare pressione sulle altre realtà nazionali – come la Lega Tunisina dei Diritti Umani (LTDH) e sui parlamentari dell’ARP (Assemblea dei Rappresentanti del Popolo) – per sensibilizzarli. Quando si tratta della causa LGBT, infatti, anche i più progressisti “tremano all’esporsi pubblicamente in una società alla base ancora molto conservatrice”. Come succede con altre cause sensibili ma estremamente attuali, si giudica il momento inappropriato per lanciare una mobilitazione, ribadendo che le priorità nel paese sono sempre altrove.
Nessuna mobilitazione reale nello spazio pubblico è invece prevista, in una fase in cui anche il diritto di associazione traballa a causa della Legge antiterrorismo.
Nessuna reazione pubblica, nemmeno dalle fila dell’opposizione ormai ai ranghi ridotti, ad eccezione di un comunicato emesso dal partito Al Massar. La Presidente della Commissione Diritti e Libertà all’ARP, Bochra Belhaj Hamida, sollecitata dalle associazioni, ha dichiarato di non poter intervenire in quanto la questione non sarebbe tra le prerogative dell’organismo che rappresenta.
La campagna virtuale resta l’unico mezzo utile per sollecitare l’opinione pubblica. Le associazioni LGBT soffrono ancora di un’evidente esclusione dai dibattiti televisivi, radiofonici e della stampa mainstream e continuano ad essere stigmatizzate da buona parte della società.
Ne è testimonianza la valanga di insulti di cui sono vittime molti attivisti e militanti che osano esporsi pubblicamente. Storie che ci raccontano che la battaglia per il riconoscimento dei diritti è ancora lunga, e che non ci si deve limitare ad esigere la depenalizzazione dell’omosessualità, ma mirare a creare le condizioni per affermare la libertà di disporre del proprio corpo, il rispetto dell’integrità fisica e morale, parte integrante dei diritti rivendicati dai giovani durante la Rivoluzione e sui quali ormai non si può più cedere.
Una battaglia anche culturale contro le discriminazioni legate all’identità e all’orientamento sessuale, contro il sessismo, la lesbofobia e l’omofobia dilagante e in aumento dal 2011.
Se poca speranza resta nei confronti del governo reazionario di Nidaa Tounes, possiamo ancora confidare nell’attivismo della società civile, vigile e attenta. La Tunisia resta uno dei pochi paesi del mondo arabo in cui le associazioni che difendono i diritti della comunità LGBT esistono e sono riconosciute.
Se per anni, dal 2000, la comunità LGBT in Tunisia ha lavorato nell’ombra e militato segretamente, con azioni poco visibili e sempre attenta a mettere in sicurezza i propri militanti, sembra essere arrivato il momento dell’azione.
Questa presenza e attenzione fa ben sperare e la mobilitazione sembra finalmente rioccupare gli spazi, come era accaduto nella primavera del 2015 in occasione della Giornata Mondiale contro l’Omofobia. In un contesto in cui la tendenza è all’autocensura e l’omosessualità maschile – e ancora di più quella femminile – restano tabu, manifestare pubblicamente è un atto di coraggio.
27 Settembre 2015
di: Debora del Pistoia da Tunisi
Tratto da Osservatorio Iraq