Ci sono storie, vicende che da sole valgono più di una montagna di libri e saggi per comprendere una realtà.
La vicenda di Raif Badawi, condannato a mille frustate e a dieci anni di carcere per oltraggio all’Islam, ci parla chiaramente di qual’è la realtà in Arabia Saudita, paese formalmente alleato dell’occidente ed uno degli attori che, tra conflitti ed alleanze, sta “gareggianfo” per un ruolo leader nell’intera area, scontrandosi con Iran ed altri paesi.
In questi giorni l’assegnazione del premio Sakharov per i diritti umani dell’Europarlamento al giovane blogger saudita ha fatto sì che si ritornasse a parlare del suo caso. Ma la campagna per la sua liberazione non si è mai fermata ed è possibile seguirla in twiiter: #freeraif @raif_badawi
Per capire di cosa stiamo parlando vogliamo proporvi un piccolo testo scritto da Raif Badawi.
I suoi scritti sono stati raccolti nell’opuscolo “1000 coups de fouet – Parce que j’ai osè parler librement” (1000 colpi di frusta – Perchè ho osato parlare liberamente), editato da Amnesty International, impegnata a fondo nella campagna per la sua liberazione e Éditions Édito.
Il volume è stato presentato a Montréal alla presenza della moglie di Raif, Ensaf Haidar, rifugiata a Sherbrooke con i figli dal 2013, quando suo marito è stato incarcerato.
Il libretto è di 62 pagine e raccoglie 14 messaggi blog scritti da Raif tra il 2010 e il 2012, che sono serviti al Tribunale dell’Arabia Saudita per condannarlo a 10 anni di prigione e 1000 colpi di frusta per aver criticato il regime religioso.
Badawi è riuscito a dettare durante una chiamata alla moglie la prefazione della raccolta. Vi è descritto come “nell’orribile gabinetto, sporco di escrementi ed in rovina che condivido con gli altri detenuti, tra i vari graffiti e segni sul muro, lo sguardo mi è caduto su una scritta: “la laïcité est la solution” (NDT la laicità è la soluzione). Stupefatto mi sono stropicciato gli occhi, per assicuarmi di aver visto bene”. Parlando della sua vita da carcerato precisa che lo stato dei gabinetti “giocano un grande ruolo nella formazione del pensiero. Quando ci vado e mi siedo, le idee si muovono nella mia mente”.
I testi di Badawi sono semplici, diretti e sarcastici. Invita i suoi concittadini a smettere di fare come gli struzzi, ignorando come il loro paese si rifiuta di rispettare i diritti delle minoranze religiose. Esplora il concetto dell’eguaglianza dei sessi. Denuncia i dogmi religiosi che nuociono all’innovazione e alla creatività.
La moglie, presentando i testi e ringraziando Amnesty International per l’appoggio, ha detto che nè la prigione, nè la pessima situazione, nè il morale vacillante di salute hanno fatto perdere al marito il gusto per la scrittura.
Noi vi proponiamo uno dei suoi scritti. Vi ripetiamo, leggetelo. Spiega meglio di tanto altro cos’è un paese, l’Arabia Saudita, dove si viene incarcerati e frustati in pubblico perchè si è scritto questo:
Pensa ciò che vuoi
Pubblicato sul sito web Al-Hiwar al.Mutamaddin il 12/08/2010
La libertà d’ espressione è l’aria che respira ogni pensatore, così come è il combustibile che infiamma il suo pensiero. Nel corso dei secoli, le nazioni e le società sono progredite solo grazie ai loro pensatori. E’ grazie alle idee e filosofie, che sono proposte loro che i popoli possono scegliere un sistema di pensiero adeguato, svilupparlo affinché li conduca fino agli oceani della scienza, del progresso, della civilizzazione e della prosperità.
Le società di tutto il mondo e le organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo chiedono ai regimi arabi ulteriori riforme nel campo della libertà d’espressione. Esse ritengono che si tratta di un diritto essenziale: siete un essere umano, quindi avete il diritto di esprimervi e di pensare come volete, così come avete il diritto di esprimere ciò che pensate; voi avete il diritto di credere e di riflettere, voi avete il diritto di amare o di odiare, voi avete il diritto d’essere liberale o islamista.
Le religioni monoteiste hanno esaltato, con insistenza, la libertà d’ espressione. Tuttavia, il pensiero arabo, anche quando è sostenitore del libero pensiero, si è abituato nei suoi testi ad abbindolare le sue idee per farle passare. Soprattutto se le riflessioni chiare e libere che propone sono considerate come quelle di un apostata e di un blasfemo, poiché, nelle ideologie delle società arabe, ogni pensiero del tutto libero è un segno di dissoluzione di dissidenza religiosa e di perdita della retta via.
E’ normale ? Certo che no, perché il pensiero arabo da una parte e la società dall’altra agiscono anormalmente. Bisogna che il pensatore esprima le sue idee o la sua filosofia della vita con sincerità e audacia, anche se comportano qualche errore, o nuotano sole contro corrente alla “tradizione religiosa”.
La società, in compenso, deve aprirsi a tutte le forme di pensiero e a tutte le correnti intellettuali e riservarsi uno spazio per ascolatare le opinioni degli altri, allo scopo di poterle criticare in modo costruttivo, attivando un dialogo creativo e con l’obiettivo di valutare e sviluppare le idee e non rifiutarle con il solo pretesto della differenza di opinione.
L’osservatore della società araba la vede gemere e piegrasi sotto il gioco di un ordine teocratico che si aspetta solamente che si inchini agli uomini del cleo e obbedisca loro ciecamente. Di fatto, incontestabilmente, queste società di impegnano al loro dovere di lealtà al clero al punto che tutte le sue fatwa e esegesi diventano verità assolute, anche sacre. Basta che un libero pensatore esprima la sua opinione perchè centinaia di fatwa, emesse dagli sceicchi che rivaleggiano di zelo in materia, inizino a scomunicare e minacciare il pensatore in questione per la semplice ragione che tocca il dominio del sacro.
Quello che io temo di più, è che brillanti spiriti arabi si esilino in cerca di aria pura, lontano dalle sciabole dell’autoritarismo religioso.
Premio Sakharov a Raif Badawi di Antonella Napoli
L’assegnazione del prestigioso premio Sakharov per i diritti umani dell’europarlamento al blogger saudita Raif Badawi, condannato a mille frustate e a dieci anni di carcere per oltraggio all’Islam, è una bella notizia ma soprattutto un messaggio forte per l’Arabia Saudita di cui mi auguro tenga conto, in particolar modo, l’Italia.
Nei giorni scorsi la Corte Suprema di Riyad ha confermato la condanna a morte nei confronti di Nimr Baqir al Nimr, figura di spicco del movimento di protesta contro il governo e zio di Ali, ventenne anch’egli destinato alla stessa sorte e per il quale si è animata una mobilitazione internazionale come avvenuto in precedenza per lo stesso Badawi.
Dopo la sentenza di Appello, confermata dall’Alta Corte saudita, il destino del leader dell’opposizione è dunque nelle mani del re Salman, a cui spetta convalidare la condanna oppure concedere la grazia.
Sulla decisione peserà certamente la consapevolezza che questa esecuzione possa provocare la reazione dei sostenitori dello sceicco nelle aree sciite del mondo islamico.
Le tensioni tra le autorità saudite e la minoranza musulmana del paese si sono amplificate da quando nel 2011 sono iniziate, ispirate in parte dalle proteste popolari in Medio Oriente e Africa del Nord, manifestazioni nel Regno per chiedere riforme e diritti.
Ali Mohammed al Nimr aveva 17 anni quando nel febbraio 2012 venne arrestato per aver preso parte a un corteo nella provincia di Qatif. Due anni dopo, il 27 maggio del 2015, è stato condannato a morte per decapitazione, per poi essere crocifisso ed esposto fino a quando il suo corpo non sarà putrefatto.
Secondo Amnesty International la sentenza non sarebbe stata così dura se Ali non fosse stato nipote di uno dei più conosciuti e determinati oppositori sciiti al regime saudita.
Insieme a lui sono stati giudicati altri due giovani, minorenni all’epoca dei fatti contestati. Dawood Hussein al-Marhoon e Abdullah Hasan al-Zaher.
Anche per loro la Corte penale speciale di Riyad ha emesso la pena capitale per reati che vanno dalla partecipazione a proteste antigovernative, alla rapina a mano armata e all’uccisione di agenti di polizia “avendo fabbricato e usato bombe molotov per attaccarli”.
Tutti loro hanno raccontato di essere stati torturati e costretti a confessare, dopo che gli era stato negato l’accesso a un avvocato durante gli interrogatori.
La vicenda ha scosso anche l’opinione pubblica italiana quando Tahar Ben Jelloun, scrittore e saggista marocchino a cui il segretario dell’Onu ha conferito il Global Tolerance Award, dalla prima pagina di Repubblica ha lanciato un appello a salvare Ali.
Tahar ci ha raccontato che proprio nelle ore in cui veniva emessa la sentenza per al-Nimr, Faisal Bin Hassan Trad, ambasciatore saudita, veniva eletto a Ginevra presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Come evidenziato dall’intellettuale nordafricano la decisione di questa ‘istituzione sempre più inefficace’ è apparsa quasi una forma di macabro umorismo.
L’Arabia Saudita, da sempre governata dalla stessa famiglia, emette di continuo condanne a morte e detiene il record mondiale di esecuzioni capitali. Solo quest’anno ci sono state già 133 esecuzioni.
“Che cosa fare in questi casi? Lasciar correre, stare zitti, tenere un profilo basso per non perdere qualche contratto? Starsene dietro alla propria vigliaccheria e distogliere lo sguardo? Ma è inammissibile. Per giudicare i governanti che hanno commesso crimini contro l’umanità c’è la Corte penale internazionale: perché non viene denunciato chi amministra la giustizia in quel paese?” ha scritto Jelloun cogliendo il cuore del problema dell’inerzia della diplomazia internazionale.
Finora l’unico governo che ha preso ufficialmente posizione è quello francese. Il presidente François Hollande si è rivolto senza timori direttamente al regno saudita chiedendo di rinunciare all’esecuzione nel nome del principio essenziale che la pena di morte va abolita.
Prima di lui era stato il premier Manuel Valls a schierarsi contro la condanna, sostenendo la campagna promossa da numerose organizzazioni non governative, Amnesty in testa, e che in Francia ha avuto un’eco anche maggiore che nei Paesi anglosassoni.
Negli ultimi giorni anche nel Regno Unito si è animato un dibattito che ha spinto il primo ministro Cameron a manifestare qualche segnale di irritazione nei confronti di Riyad. Il nuovo leader labour, Jeremy Corbyn, aveva chiesto al premier britannico di “intervenire con urgenza” suggerendo di adottare contromisure per esercitare pressione sulla monarchia wahabita a cominciare dalla ‘cancellazione di un contratto di consulenza per le prigioni saudite’. E difatti Londra ha invertito la marcia nei rapporti con l’Arabia e ha sospeso il progetto di formazione al sistema penale del Paese, adducendo riserve sul mancato rispetto dei diritti umani.
In Italia a parte l’impegno di alcuni esponenti del mondo dell’informazione e della società civile, in prima fila Aki, Amnesty, Unità e Articolo 21 che hanno rilanciato la mobilitazione internazionale per fermare la mano del boia, non si sono alzate molte voci ‘istituzionali’. Ed è per questo che ancora una volta vale la pena di sollecitare una reazione da parte del governo per dire no all’atroce destino del giovane saudita, che deve e può essere cambiato. Ma solo con il coinvolgimento di tutti.
29 ottobre 2015 Tratto da Articolo 21