Siamo nel Mediterraneo. Tunisia o Italia: una fuoriuscita di petrolio ci riguarda tutti

E’ di un paio di settimane fa la notizia di una fuoriuscita di petrolio che ha raggiunto le piccolissime e bellissime isole del arcipelago di Kerkennah in Tunisia.
La preoccupazione si era spostata anche in Italia per la salute delle coste e delle spiagge delle Pelagie, provocando lo stato di allerta e l’immediato intervento dell’Area Marina Protetta, per verificare le dinamiche oceanografiche e la possibilità di spostamento del greggio verso l’arcipelago italiano. Alla fine le correnti hanno fatto sì che il danno colpisse solo le spiagge tunisine.

Dunque l’abbiamo scampata, ma veramente?
Oppure in un mare chiuso come il Mediterraneo parlare di un danno solo locale non ha senso?
A rispondere per noi è la combattiva sindaca di Lampedusa.
“L’incidente della Tunisia dimostra tuttavia quanto sia insicura e pericolosa l’attività estrattiva nel Mediterraneo e quanto sia importante salvaguardare l’integrità ambientale e la bellezza del mare delle Pelagie e di tutte le piccole isole del Mediterraneo, dato che appartengono al patrimonio ambientale del Paese e che i loro abitanti traggono sostentamento esclusivamente dalla pesca e dal turismo”.
Queste riflessioni sono un motivo in più a pochi giorni dal referendum non solo per andare a votare, ma per convincere tanti altri a farlo.
Dal 17 aprile può emergere una chiara volontà: smettere di considerare l’estrattivismo una possibilità ed imboccare senza tentennamenti la strada di alternative reali per la produzione di energia.

Torniamo in Tunisia.
Planiamo sull’arcipelago delle isole Kerkenna al largo di Sfax, sulla costa orientale della Tunisia, nel Golfo di Gabès.
180 km2, 110 kms di coste, due isole principali, 12 isolotti e 14 000 abitanti, un mare calmo come l’olio dove vogano da secoli le famiglie di pescatori.
Non sfruttate dall’industria del turismo internazionale, complessivamente per altro in profonda crisi per gli attacchi dei gruppi integralisti, le isole sono visitate da turismo locale e gli abitanti vivono in gran parte, faticosamente di pesca.
Per chi ci vive non è certo un paradiso. Soprattutto i giovani emigrano. In più nella complessiva situazione di crisi la vita nelle isole è diventata ancora più difficile.

A lanciare l’allarme gli abitanti che domenica 13 marzo hanno visto la marea nera tra le spiaggie di Sersina e di Sidi Fradj. Un evento che avevano già visto alcuni anni fa quando c’era stato un altro incidente e il petrolio aveva inquinato le spiagge.
Di fronte alle foto, che immediatamente hanno iniziato a circolare nei social, il Ministro dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile, Néjib Derouiche, si è recato nelle isole e davanti al disastro ha autorizzato il Governatorato di Sfax a invitare la commissione regionale delle catastrofi ad intervenire e limitare l’inquinamento marino seguito alla fuoriuscita.
Una cosa più facile a dirsi che a farsi!
Comunque alla fine della girandola istituzionale verrà fatta un’inchiesta per capire le cause e l’entità dell’incidente.

Ma da dove arriva la fuoriuscita?
La perdita ha origine dalle condotte sottomarine della Thyna Petroleum Services. Il pozzo di cui si parla è a 7 chilometri dalla costa.
La TPS è una società creata nel 1992 a seguito di un accordo tra Entreprise Tunisienne d’Activité Pétrolière (ETAP) e British Gaz Tunisien Limited (BGTL). Prima il suo nome era Tunisian British Services (TBS), ma dal 1998, le quote della BGTL sono state acquistate dalla società tedesca Preussag Energie (PEI) e a gennaio 1999, la TBS ha cambiato nome in TPS. Nel 2003, le quote della PEI sono state comperate dalla società austriaca Autrichienne OMV.
La TPS ha come scopo “lo studio e la realizzazione di progetti di sfruttamento e trattamento di idrocarburi liquidi e gassosi, provenienti dalle concessioni di El Hajeb, Guebiba, El Ain, Rhemoura, Gremda e Cercina. La TPS opera con 17 pozzi di produzione8 offshore (Cercina) e 9 on shore (El Hajeb, Guebiba, El Ain et Rhemoura)”. La produzione dei pozzi in concessione (Cercina, Rhemoura, et EL Ain) è trasportata con pipeline al terminal di trattamento di Tank Battery, mentre la produzioni dei pozzi della concessione di Guebiba sono trasportati all’omonimo terminal con flowlines.

Nell’arcipelago le riserve di idrocarburi si trovano a 6000 metri sul fondo qualche miglia nautica al largo. In tutto operano 4 società dal 2000: oltre alla TPS ci sono infatti Petrofac, Britsh Gaz e Select.

Il caso Petrofac
Quali sono le differenze tra BG, TPS, Select e Petrofac?
Le tre prime funzionano interamente offshore mentre Petrofac, produce 30 milioni di m3 di gas da Kerkennah. Petrofac da solo garantisce il 10% della produzione nazionale tunisiana di gas. Per questo, l’impresa britannica di perspezione e sfruttamento di idrocarburi impiega a Kerkennah 70 agenti di sicurezza e 150 impiegati.
Ma guardiamo come ha operato ed opera Petrofac, che giusto in queste settimane ha annunciato di voler lasciare la Tunisia?
Per saperne di più vale la pena dare un’occhaita ad un lavoro di inchiesta proposto poci mesi fa da Inkyfada, magazine web tunisino.
Petrofac fin dal suo arrivo sulle isole ha attuato una politica locale molto ambigua: finanziamenti a strutture locali come l’ospedale ed in particolare a partire dai mesi successivi alla rivoluzione nel 20111, erogazione di fondi per progetti di utilità sociale in cui far lavorare con un sussidio i disoccupati.
Azione magnanime, interesse al benessere collettivo?
Tutt’altro, quello che Petrofac ha fatto è cercare di comperare la pace sociale e avere un ruolo sempre più importante sul’isola, in assenza, come in tutto il paese, di politiche istituzionali di sviluppo.
Ma non tutte le ciambelle vengono con il buco!
Già l’anno scorso a primavera ed in queste settimane la protesta dei disoccupati si sta facendo sentire. Chiedono di essere assunti in forma piena per le attività sociali ed ambientali, con regolari contributi e di diventare lavoratori a tutti gli effetti pagati dallo Stato e dall’impresa petrolifera.
Con queste motivazioni stanno attuando un blocco degli impianti di Petrofac.
A causa delle proteste, l’azienda britannica ha fatto sapere che intende lasciare la Tunisia.
I disoccupati, da parte loro non demordono e continuano l’iniziativa di blocco. Pochi giorni fa era atteso l’arrivo della polizia per sgomberare il sit-in che invece ancora regge davanti ai cancelli dell’impresa.

Di fronte alla tenacia dei disoccupati la compagnia ha reso noto che non intende investire i 20 miliardi di euro previsti nelle operazioni di trivellazione nei giacimenti Chergui 9 e Chergui 10, nell’area di Kerkenna, nell’ovest del paese. La società britannica ha accusato il governo tunisino di non riuscire a controllare i ripetuti atti di sabotaggio contro gli impianti della compagnia nell’area. Lo scorso anno, secondo quanto riferito da fonti interne alla società, tali blocchi hanno provocato perdite nell’ordine di 12 milioni di dollari. Nel solo mese di gennaio, la società ha registrato 15 giorni di fermo, con perdite pari a 200 mila dollari la giorno.

Dalla Tunisia a noi, a tutto il Mediterraneo
Una vicenda che andrebbe affrontata in Tunisia con politiche diverse: non lasciare che a dettare legge su queste isole, patrimonio naturalistico, sia una o più compagnie estrattive ma invece scegliere, in maniera decisa e radicale, la strada della valorizzazione di un turismo di qualità, accompagnato da una pesca tradizionale ed attività gestite dai giovani e dagli abitanti, con finanziamenti iniziali dallo stato e anche della cooperazione internazionale.

Una storia emblematica che parla a tutti noi. Il 17 aprile Votare Sì per dire No alle Trivelle significa anche questo: pensare che è possibile un Mediterraneo che veda valorizzate le spiagge ed i contesti naturali, creando possibilità di reddito a partire dalla salvaguardia del patrimonio ambientale.
E’ una scelta che appare faticosa e difficile ma è possibile, credibile e lungimirante.
La scorciatoia utilizzata, non solo alle Kerkennah, sembra rispondere ai bisogni degli abitanti ma si dimostra un frutto avvelenato, che rischia di creare una situazione senza via d’uscita, elemosine elargite per garantire profitti.
Senza dimenticare che la Tunisia, come altri paesi del Mediterraneo potrebbero, se si volesse, essere all’avanguardia per la produzione di energia da fonti alternative.
Per fare tutto questo ci vogliono governi, meno corrotti e clientelari e una visione della cooperazione sponda a sponda, non basata solo sul controllo delle frontiere ma su una strategia condivisa.
Si può fare. Si potrebbe fare.
Ma all’orizzonte si vedono invece il mantenimento di scelte energetice devastanti. L’incentivazione anche nella piccola Tunisia del fracking, oltre al mantenimento delle logiche estrattivistiche come in Algeria.
L’utilitaristico rapporto con l’Egitto, a cui si perdonano le violazioni dei diritti umani, come è evidente anche con la vicenda Regeni, in nome degli interessi dello scacchiere geopolitico e dei futuri giacimenti, come quello scoperto dall’Eni presso il prospetto esplorativo denominato Zohr, un giacimento supergiant che presenta un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas in posto e un’estensione di circa 100 chilometri quadrat, ovvero la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mar Mediterraneo.

Non restare spettatore!
I materiali per “Votare sì e Fermare le trivelle”, li puoi trovare presso la nostra sede a Padova o scaricare dal sito www.fermaletrivelle.it


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