Giugno 2003 – In Medioriente dall’Iraq alla Palestina

Dopo le enormi manifestazioni contro la guerra, sentiamo la necessità di trovare le forme per affermare che non siamo di fronte a episodi specifici: Afghanistan, Iraq, Palestina ci mostrano che la guerra non dura solo il tempo delle date d’inizio e fine degli attacchi militari.

La dimensione totalizzante della guerra globale vuole ridisegnare la forma del comando complessivo del pianeta, plasmando a questo scopo leggi ed istituzioni internazionali ed anche la cooperazione e la solidarietà.   

Con la proposta della Carovana in Iraq e Palestina, proprio nei giorni in cui a Evian si svolgeranno le proteste contro la riunione del G8, vogliamo affermare la diplomazia dal basso, creare relazioni orizzontali tra comunità per costruire alternative concrete alla spartizione dei profitti del vortice guerre/ricostruzioni, un loop devastante che fa girare miliardi e miliardi accompagnato dai roboanti discorsi sulla pace. Vogliamo affermare che giustizia, dignità, libertà reali passano attraverso l’autodeterminazione delle comunità.

Alla Carovana aderiscono diverse amministrazioni italiane, che si sono mobilitate contro la guerra in Iraq e che a partire dalla diretta esperienza di accoglienza di chi sfuggiva dal regime di Saddam, sanno che “quello che ora sta accadendo nel Golfo ha poco a che fare con i loro sogni e speranze. Sarebbe importante invece capire che cosa sti sta muovendo, dopo le bombe cadute sulle loro teste ed in contesto di occupazione armata, nella società civile irachena, e che prospettive di relazione possono aprirsi in futuro tra città e città.”

Diario

Metà maggio Baghdad – Amman

Un paio di noi riescono ad arrivare a Baghdad ed altri vanno nella capitale giordana per preparare il nostro arrivo.

A Baghdad possono verificare direttamente la militarizzazione della città. Nonostante la presenza dei militari americani ci sono manifestazioni contro l’occupazione ed anche qualche sciopero, che è una novità per il paese. Si incontrano con artisti, intellettuali e studenti.

In Giordania, stato cuscinetto tra il confine israeliano e iracheno, vengono organizzati per il nostro arrivo alcuni incontri con la popolazione palestinese dei campi profughi.

Ovunque in questi territori si percepisce la tensione. Un clima sempre più teso dopo gli attentati in Israele e Marocco. Insomma di certo non regna la pace. Il tutto in una situazione di crisi economica e sociale dell’intera area.

30 maggio 2003

Partiamo per la Giordania, abbiamo informato della nostra intenzione di andare in Iraq il Ministero, contattato l’ambasciata, dato tutti i nostri dati e dopo la solita burocrazia formalmente il nostro convoglio per l’Iraq è autorizzato. Arriviamo ad Amman e subito avvisiamo l’Ambasciata.

31 maggio 2003

All’alba partiamo con otto furgoni, ovviamente informando costantemente dei nostri movimenti l’Ambasciata, usciamo dalla periferia della città, la strada per il confine è nel nulla.

Arriviamo al posto di blocco che segna l’uscita dalla Giordania, dopo un tot di controlli ci fanno uscire.

Siamo nella terra di nessuno.

Corriamo veloci verso il confine iracheno. E’ ormai tarda mattinata. I militari americani che lo presidiano, dicono al nostro primo furgone che “se non siamo qui per business non possiamo entrare”, poi prendono i passaporti iniziano a perquisire il mezzo. Ci dicono che ci scorteranno con il carro armato di nuovo in Giordania.

Arriviamo con tutti gli altri mezzi ed iniziamo a spiegare le motivazioni del nostro viaggio. Dopo aver mostrato carte varie e passaporti, i militari americani ci bloccano. Sequestrano le telecamere e sequestrano i nastri delle riprese.

Contattiamo l’ambasciata, che ci dice che informerà non si sa chi dei nostri nominativi per far passare la Carovana. 

Passa il tempo e restiamo bloccati nella terra di nessuno. Intanto ci contattano giornalisti vari arabi a cui spieghiamo le motivazioni del viaggio e cosa sta succedendo.

Passano le ore. In Italia alcuni deputati dei Verdi stanno contattando la Farnesina per sbloccare la situazione.

Vediamo passare camion e altri mezzi. Loro passano, sono qui per fare business, possono entrare. 

E’ ormai sera e i militari americani si fanno sbrigativi e ci costringono a salire sui nostri mezzi. Siamo costretti a tornare verso la Giordania. All’entrata in Giordania ci fanno pagare il visto d’ingresso nel paese. Sarebbe ironico se non fosse che i giordani non hanno voglia di scherzare e solo dopo aver pagato in dollari possiamo riprendere la strada per Amman. Peccato che intanto si è fatta notte e per motivi di sicurezza ci fermiamo a dormire in un inquietante specie di motel locale nel nulla.

1 giugno 2003

All’alba lasciamo il “motel” e arrivati ad Amman ci fiondiamo nell’Ambasciata italiana. Ci entriamo tutti, non solo la delegazione che vorrebbero far passare. La occupiamo e pretendiamo che facciano in fretta le ulteriori procedure di accreditamento del nostro convoglio, cioè la notifica del nostro passaggio alle autorità militari americane.

Aspettiamo tra i rimpalli vari, dopo aver compilato altri moduli, che ci diano il visto come richiesto dagli americani.

Arrivano le 14.00 e gli addetti dell’Ambasciata ci dicono che dobbiamo andare via perché è l’ora di chiusura. Non ci muoviamo. Non ci sposteremo finchè non abbiamo il visto passato alle autorità di Baghdad, che lo devono passare alle Autorità militari americane, che lo devono passare alle Autorità italiane. Tutti gli uffici dell’Ambasciata sono occupati, compreso quello dell’ambasciatore. Le nostre motivazioni sono chiare: la libera circolazione va garantita non solo al business e alle merci. La determinazione paga. Alla fine ci consegnano un documento ufficiale con i timbri di tutti, compresi americani, che ci dà il permesso di entrare.

Ormai è tardi e di sicuro non si può fare la strada per la frontiera. Ripartiremo domani

2 giugno 2003

Rifacciamo la strada verso la frontiera. Ormai i pochi venditori ambulanti ci salutano. Chissà cosa penseranno di questo strano convoglio che fa avanti e indietro.

Di nuovo all’uscita dalla Giordania, di nuovo i controlli e la burocrazia imperscrutabile, Passiamo.

Siamo di nuovo nella terra di nessuno.

Mentre la passiamo siamo più attenti a guardare quel che il giorno prima avevamo appena intravisto: centinaia di persone ferme sotto il sole, nella terra di mezzo senza niente. Capiremo man mano che sono curdi, arabi senza documenti, palestinesi, sudanesi, somali scappati dall’Iraq ma che la Giordania non fa entrare. Centinaia di persone lasciate lì. Così senza niente.

Arriviamo di nuovo al posto di blocco americano di entrata in Iraq. Ci bloccano. Non ci fanno passare. Dicono che non c’è il permesso. Facciamo vedere il visto con i timbri, ci incolliamo al telefono con il solito Ambasciatore. Dicono che il visto c’è ma non si sa perché il placet non è passato all’Esercito.

Si fa sempre più chiaro il fatto che non è una svista, dovuta a cattiva comunicazione tra uffici, ma una chiara scelta politica: noi non dobbiamo passare.

Decidiamo che non ce ne andremo di nuovo. I militari ci circondano. Noi siamo seduti per terra, fermi. I militari si fanno sempre più aggressivi e ci prendono di peso e caricano sui furgoni, minacciano gli autisti. Alcuni di noi vengono percossi. Vogliono farci fare dietro front. Poi avanza un carro armato. Poche parole di un militare americano chiariscono la questione: “Ya Basta Antiglobalisation = no autorisation”. Il carro armato si avvicina sempre di più. Decidiamo di ripartire.

Facciamo un pezzo di strada nella terra di nessuno. Fermiamo i furgoni sul ciglio della strada e andiamo verso le centinaia di persone abbandonate nel niente, verso le loro tende per incontrarli. Ad agitarsi questa volta sono i poliziotti giordani, che hanno seguito quel che stavamo facendo. Arrivano di corsa, mitra in mano. I profughi, che poi sapremo sono ammucchiati in quelli che eufemisticamente vengono chiamati campi, sottoposti all’autorità giordana, con la collaborazione dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati e della Croce Rossa, ci vengono incontro per salutarci, parlarci. Ma visto che i poliziotti giordani sono sempre più agitati, urliamo loro da lontano per comunicare e ci allontaniamo. Non vorremmo mai che per venire a parlarci rischiassero che i poliziotti giordani gli sparino.

Torniamo al confine giordano. E … ci fanno di nuovo pagare il visto d’ingresso in dollari in Giordania. Dopo aver pagato la gabella, prima di farci entrare ci fanno passare ad uno a uno a piedi, cercano il materiale fotografico. Hanno avuto ordine di far sparire ogni traccia di quel che è successo nella terra di nessuno sia a noi oggi che alle centinaia di persone che vi sono intrappolate da giorni.

Continuiamo a vedere convogli che passano in tutta fretta e autocisterne che arrivano da oltre confine. Per il business commerciale ed anche umanitario non ci sono problemi.

Dopo aver medicato quelli di noi che sono stati percossi, mentre torniamo ad Amman ci attacchiamo al telefono per denunciare non solo quel che ci è successo, ma anche la situazione delle centinaia di persone abbandonate nella terra di nessuno.

In serata ci colleghiamo con quelli di noi che sono a Baghdad per raccontare quel che è successo. “Ma se adesso c’è la democrazia in Iraq perche noi non possiamo entrare?” E’ una domanda semplice che ha anche una risposta semplice.

3 giugno 2003

Arriviamo ad Amman alle 6 del mattino. Ci organizziamo e lanciamo un appello a non far passare sotto silenzio quel che è successo ed a impegnarsi per rompere il blocco dell’Iraq e a fare di tutto per rendere visibile la situazione delle centinaia di persone sbattute ed abbandonate nella terra di nessuno.

4 giugno 2003

La prima cosa è scrivere un comunicato che racchiude quel che pensiamo. Lanciamo alcune proposte immediate: 

  • costruire la mobilitazione necessaria a liberare le relazioni con l’Iraq dalla morsa militare che sta strangolando l’intera zona
  • occuparsi della situazione dei profughi nella terra di nessuno, che sono lo specchio reale di ciò che deposita la guerra.

Un gruppo di noi torna in Ambasciata, giusto per ricordare all’ambasciatore che non ci dimentichiamo certo di quel che è successo.

Un altro va alla sede dell’Alto Commissariato dell’ONU a comunicare che abbiamo intenzione di far visita al campo nella terra di nessuno per documentare la situazione.

5 e 6 giugno 2003

Un piccolo gruppetto di noi torna nella terra di nessuno. L’ UNHCR, ACNUR, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati che ufficialmente gestisce il campo ha posto il divieto di accesso, temendo che venissero diffuse le informazioni sulle reali condizioni di vita dei profughi. Non è possibile né comunicare con le diverse centinaia di persone, circa 1500, che vivono nel campo in condizioni disperate (solo tende in mezzo al deserto, polvere e immondizia), né avere testimonianze fotografiche e video.

Facciamo un ultima iniziativa al confine giordano israeliano: un gruppo di 13 di noi va al posto di blocco ed anche qui dopo un tot di ore, puntuale arriva il divieto da parte delle autorità israeliane. Non possiamo entrare. Ce lo aspettavamo.

Torniamo in Italia e lanciamo una campagna di mobilitazione per liberare i corpi prigionieri della terra di nessuno.

Vogliamo costruire relazioni libere dalle divise militari con le comunità irachene, continuare ad andare in Iraq. Oggi lo stiamo facendo, ma allora non sapevamo che ce l’avremmo fatta. 


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