Aprile/Giugno 1999 – Stop the war

INIZIO ANNO

Gli echi sempre più pressanti del dramma che si sta consumando nei Balcani si fanno sempre più forti. Negli anni passati, quelli del dissolvimento dell’ex Jugoslavia, prima l’indipendenza della Slovenia, poi quella della Croazia e della Macedonia pur avendo tra loro percorsi e sintesi pubbliche differenti mettevano in luce sia la ricerca di autonomia come aspirazione all’essere europei sia la drammatica pericolosità reazionaria della ricerca della propria “piccola patria”.

In questa contradditoria situazione da parte europea ed americana si gioca in maniera spericolata, guidati solo dalla volontà di ridisegnare un quadro di comando che guarda all’intero est Europa e al suo futuro.

I drammi dell’assedio di Sarajevo aprono il dibattito sull’interventismo internazionale. Quello che sta alla base di questa discussione non è certo la ricerca in una chiave adeguata alla modernità dell’estensione piena dei diritti e della cittadinanza, della valorizzazione del legame territoriale, di una autodeterminazione solidale quanto invece la legittimazione di una unica via per “proteggere” la vita umana quella dell’intervento militare.

Da parte nostra ci troviamo da un lato a smarcarci da qualsiasi nostalgica difesa del passato socialista e dall’altro avvertiamo la pericolosità dell’avallo all’intervento internazionale peraltro quanto mai ipocrita se fatto da chi non ha esitato a sostenere mai pubblicamente, anche regimi autoritari.

Di questo ci parleranno a lungo gli oppositori di Milosevic raccontandoci dei contratti come quello della Telecom Italia cascato a pennello proprio prima delle elezioni in Serbia, quando invece si sarebbe dovuto appoggiare il movimento d’opposizione.

E questi stessi uomini e donne poi sotto il bombardamenti ci racconteranno di quanto sia impossibile far considerare punto di riferimento politico e di cambiamento chi ti sta bombardando.

La storia dei Balcani di quegli anni è una storia di barbarie e drammi che hanno segnato il destino di migliaia di esseri umani. Ma è una storia che si è voluto fosse così, è stato lo specchio aberrante dell’Europa degli interessi politici ed economici, del cinismo delle frontiere chiuse ai rifugiati e del volto orribile della guerra.

Nomi che prima erano quasi sconosciuti, eppure non certo geograficamente lontani irrompono nella nostra quotidianità. Molti di noi già nella prima metà degli anni novanta hanno viaggiato nei Balcani partecipando alle iniziative che cercavano di costruire legami con la società civile di quei territori.

E’ in questi territori, dove siamo andati con la nave in Albania, che l’ipocrisia della guerra umanitaria si dispiega nella sua devastante azione.

E’ l’apertura della moderna declinazione della guerra, che poi ci accompagnerà nel terzo millenio.

In Italia a gestire l’entrata formale nel dispositivo bellico occidentale è il governo di centro-sinistra, applaudito da una parte dal pacifismo nostrano. La giustificazione con cui si dipinge l’attacco alla Serbia, ultimo tassello del puzzle drammatico dei Balcani, è la violenza che si consuma in Kossovo. Come se quello che si consuma in quei territori non fosse l’ipocrita frutto degli anni passati, della precisa volontà di utilizzare le spinte nazionaliste, anche le più barbare per ridisegnare gli equilibri geopolitici verso l’Est.

L’inizio dell’anno si apre con il rullare dei tamburi di guerra, con la fanfara dei diritti umani, con la propaganda della sofferta scelta occidentale, che, intorno agli incontri di Rambouillet, la presenza degli osservatori internazionali, si sta armando. La spinta americana, gli interessi europei, i loro rispettivi ruoli non solo nei Balcani, la loro relazione segnano lo scenario reale con gli esodi, i profughi che la guerra lascia sul terreno. Questi e molti altri sono i motivi che ci spingono a rifiutare la guerra, a smascherare il volto umanitario, a scegliere di non essere complici.

MARZO: AL RITORNO DAL TRENO DI VENTIMIGLIA

Al ritorno da Ventimiglia quello che ci si aspettava era iniziato. I bombardamenti sulla Serbia erano realtà. Di nuovi, ma con un’immagine ben più nitida delle strisce di fuoco dell’attacco all’Iraq del ’91, dalla televisione le immagini delle luci dei bombardamenti diventavano quotidiane.

Di fronte alla guerra umanitaria come reagire?

E’ dalle nostre basi che partono i bombardieri, dalle basi messe a disposizione dal governo D’Alema. Di una cosa siamo certi bisogna smarcarsi non solo dalla guerra ma anche dalla ritualità del pacifismo.

Inventare nuove forme per dare voce al rifiuto e farlo a partire da quelle basi. Quelle basi Istrana, Aviano sono qui, sono vicine. Non può essere che da lì che inizia la nostra marcia.

NO AI BOMBARDAMENTI, NO ALL’USO DELLE BASI

La mobilitazione si allarga e coinvolge altri oltre noi. In molti non accettano di partecipare all’operazione di facciata che il governo lancia a parole a favore dei profughi: l’operazione Arcobaleno. Per chi è onesto non ci possono essere ambiguità, l’umanitario e la guerra non possono marciare assieme sugli stessi convogli. Sarà l’inizio di una discussione che continueremo a trovarci di fronte negli anni futuri. Ma certo allora nella primavera del 1999 abbiamo iniziato a seminare anticorpi per reagire alla colossale menzogna della “guerra umanitaria”.

Ad ogni mobilitazione il dibattito sulle forme di lotta cresce.

L’invasione della base militare di Istrana all’inizio di aprile segna un punto di non ritorno: è possibile invadere lo spazio della guerra con altri segni.

L’11 aprile ad Aviano, base militare della Nato, la decisione di arrivare alle reti per attaccare uno striscione è il minimo che si possa fare per non accettare l’inviolabilità delle basi. La polizia caricherà e rispondere e restare lì davanti è un atto minimo di rispetto per chi è costretto sotto i bombardamenti. Per chi è in malafede queste cose diventano violenza, noi diventiamo i violenti quando è sotto gli occhi di tutti l’enormità della violenza, quella vera e legale, che scende dai cieli dei Balcani.

Il 25 aprile ad Istrana arriviamo in tanti, protetti con dei gommoni di plastica dal possibile intervento della polizia. Saranno i gommoni a permetterci di facela, di tagliare le reti ed entrare.

Tutte queste cose si accumulano tra discussioni, riflessioni, assemblee che ci porteranno il 6 giugno in molti di più ad Aviano con la chiara intenzione di bloccare i bombardamenti. Non vogliamo sentire sulla nostra manifestazione il rumore dei voli della morte. E così è.

Sono stati mesi intensi. Abbiamo cercato di essere una voce fuori dai vari cori per dire che sta nel cuore dell’Europa la strada che porta ai Balcani.

Diario

11 APRILE 1999 AVIANO

La rete è a poche decine di metri. Oltre la base, da lì partono i bombardamenti. Il corteo è quasi finito sotto un cielo grigio dal paese fino alla strada che costeggia con un fossato questo pezzo di terra espropriato dagli hangar militari.

Iniziamo ad andare, siamo un gruppo di donne, mancano ancora pochi metri, iniziano a tirare i lacrimogeni, da dietro si inizia a difendersi con le zolle di pietra. Dal megafono si spiega:”Andiamo avanti, vogliamo mettere uno striscione sulla rete”. Lo striscione avanza. Nonostante le cariche arriva alla rete. Viene attaccato. Dietro nessuno è andato via. Siamo tutti lì. Stop the war.

Un piccolo gesto, uno striscione per dire che siamo contro la guerra e contro la pulizia etnica per una Europa dei diritti.

25 APRILE 1999 ISTRANA

Quelli che ci vedono arrivare alla stazione di Istrana con degli scolapasta in testa, ci devono prendere per matti. Se poi vedessero i gommoni, le enormi camere d’aria con cui avanziamo verso le reti della base ci prenderebbero per matti due volte.

A volte bisogna andare oltre alle percezioni scontate.

Gli scolapasta in testa nascono dalla voglia di prendere un po’ in giro l’assurdo dibattito nato dal fatto che ad Aviano, giustamente, per proteggersi dalle cariche, i compagni avevano dei caschi. Si è cercato di far diventare puro sinonimo di violenza un gesto di sana prevenzione vista l’arbitarietà delle cariche della polizia. Auto-proteggersi, auto-difendersi è un diritto minimo. Soprattutto quando volutamente si è deciso di violare la cosidetta legalità. Certo entrare in una base è reato. Ma forse non è un reato, ben più grave bombardare, uccidere formalmente tra l’altro trasgredendo quel pezzo di carta che in  teoria dovrebbe essere la Costituzione?

Legalità formale, quella della guerra, protetta dalle forze dell’ordine contro la legittimità quella dell’umanità a rifiutare la barbaria della guerra.

Anche degli scolapasta e dei copertoni di camion, possono servire ad affrontare grandi discorsi, grandi temi. La violenza, la non violenza due parole capaci di diventare come un falso specchio reciproco, solo una gabbia ipocrita. E gli scolapasta e i gommoni servono per rompere questa gabbia. Per riportare le cose alle loro realtà per disertare la guerra a volte bisogna infrangere le regole, se infrangi le regole rischi lo scontro, se rischi lo scontro .. meglio proteggersi. Visto che dall’altra parte, quella della legalità non ci si fa certo scrupoli ad usare la violenza. E’ un dibattito vecchio come il mondo, così come è vecchio l’assoluto monopolio dell’uso della forza che è strutturato in ogni dimensione del potere.

Avanziamo nella piatta campagna trevisana, davanti come sempre il camion con l’amplificazione. Arriviamo all’ennesima rete quella della base. I compagni avanzano protetti dai gommoni e per fortuna visto che ai primi passi verso la rete la polizia cerca di caricare. Ma i gommoni servono a recuperare quei minuti fondamentali per aprire la rete ed entrare con lo striscione Stop the bombs. Ancora un po’ di confusione ma ce l’abbiamo fatta a lasciare anche qui il nostro piccolo segno .

6 GIUGNO 1999 AVIANO

Ci sono volute settimane di discussione per chiarire bene a tutti che non era possibile accettare di sfilare con gli aerei che partono sopra le nostre teste. Che questo non lo avremmo accettato, che se partiva un aereo avremmo invaso la base, che potevamo e dovevamo cercare di sospendere i voli della morte. L’abbiamo voluto fare pubblico questo dibattito perchè non c’è niente da nascondere. Abbiamo il diritto di non accettare l’esistente. E così invece che allontanare la partecipazione, il fatto di aver posto pubblicamente la sospensione dei voli, porta ad una partecipazione ampissima.

Siamo migliaia a percorrere le reti della base, a guardare il cielo per controllare, sfilare determinati ad invadere la base se parte un aereo.

Gli aerei non partono per quel pomeriggio.

Certo anche stavolta non abbiamo vinto la guerra ma di certo la guerra non ha vinto noi.

L’immagine di copertina è tratta da un disegno di Aleksandar Zograf, fumettista serbo che con i sui disegni ha raccontato in maniera graffiante quanto avveniva nei Balcani.


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