Aprile 1997 – Da Venezia a La Realidad

Tra le prime iniziative di Ya Basta prepariamo una delegazione della società civile italiana per raggiungere il Chiapas, discutere con gli zapatisti ed invitarli in Italia. Ad aprile si parte.

La delegazione tra gli altri vedrà la partecipazione di Gianfranco Bettin Vice sindaco di Venezia, Pierluigi Sullo del quotidiano il Manifesto, Luca Casarini dei Centri Sociali del Nord Est, Alfio Nicotra di Rifondazione Comunista.

La delegazione raggiungerà La Realidad dove si incontrerà con il Subcomandante Marcos. Nell’incontro verrà rivolto l’invito perchè una delegazione zapatista visiti l’Italia.

Al ritorno dall’incontro la delegazione visiterà il carcere di Cerro Hueco, dove sono rinchiuse le persone sospettate di essere zapatiste e si incontrerà con Monsignor Ruiz, figura chiave della storia chiapaneca.

Una delegazione che serve a sottolineare l’attenzione internazionale sul conflitto in Chiapas e a raccontare in Italia questa straordinaria esperienza.

Fucile e crocifisso è il subcomandante Marcos

di Gianfranco Bettin

Quattro ore di colloquio nella notte tra politica, cultura e ironia.

Il guerrigliero compare all’improvviso, silenzioso, furtivo, ombra nell’ombra, nel buoi di una notte senza stelle e di luna nascosta. Sono solo le nove ma quasi tutta la comunità indigena – La Realidad, nella Selva Lacandona del Chiapas – dorme o se ne sta nelle povere case di legno o nelle poverissime capanne dai tetti di paglia. Il fiumiciattolo che attraversa il villaggio mormora liquido sbalza sui sassi levigati, si allarga e gorgoglia nelle pozze dove di giorno vengono lavati i panni e uomini, donne e bambini si immergono a pulirsi e a rinfrescarsi dall’afa umida. Ovunque, il gracidare di rane e di rospi e il frinire delle cicale ininterrotti, echeggiano la vita che nell’oscurità della foresta continua comunque, che non dorme.

Il soldato dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale porta il sombrero e ha il volto coperto da un passamontagna, come sempre. Il fucile che imbraccia, sembra vecchiotto ma lui ha l’area di saperne trarre il massimo di efficacia. E’ un indio, si intuisce dai pochi tratti visibili della faccia, dalla bassa statura, dalle movenze. Dice qualche nome, compreso il mio. Lo seguiamo nella Selva senza altre parole al solo lume di una piccola torcia.

Che ci faccio qui?

La ricorrente domanda di Bruce Chatwin. Grande viaggiatore, grande scrittore, si affaccia mentre lo seguo. Che ci faccio in questo posto lontanissimo “vice-alcalde” – come dicono qui – di una città che non c’entra niente con Messico ed ancora meno con il Chiapas montagnoso e boscoso? Ci sono venuto su invito dell’associazione “Ya Basta”, la prima ad aver capito l’esperienza dello zapatismo di questi anni, la prima a mobilitarsi in Italia a sostegno delle comunità Maya in rivolta contro il governo federale messicano colpevole di perpetrare antichissimi soprusi e nuovissime ingiustizie ai danni degli indigeni. Come può, cioè con le poche risorse che può mettere a disposizione, il Comune di Venezia concorre in vari paesi a progetti di cooperazione e di intervento solidale.

Nel Chiapas, con la “Ya Basta” concorre a un progetto di salute comunitaria. E Dio sa se qui ce n’è bisogno – lo sa qualunque Dio tranne quello dei disgraziati ottenebrati dall’egoismo o dal furore politico che anche su questo trovano da ridire.

Nel Chiapas, nel sudest del Messico, verso il confine guatemalteco, in una regione grande un quinto dell’Italia vivono tre milioni e mezzo di persone quasi tutte sparse in piccoli villaggi. Con oltre un milione di indios discendenti diretti dei maya, il Chiapas è la massima concentrazione di indigeni del Messico (dove sono in tutto dieci milioni). Con un reddito medio spesso sotto il minimo di sussistenza, con un tasso di mortalità infantile e di malattie endemiche da 5 a 10 volte superiore alla media, la regione è oggi ulteriormente investita da processi di pauperizzazione e di espropriazione conseguenti alla nuova divisione economica e produttiva introdotta dal Trattato di Libero scambio (il cosidetto Nafta) tra Usa, Canada e Messico. Nel nuovo quadro in Chiapas hanno avuto la mano libera i latifondisti che disboscano le foreste e le trasformano in immensi territori per allevare bovini per gli hamburger o traforano il territorio per attingere ai ricchi giacimenti di petrolio e altre materie prime che alimentano il resto del paese e forniscono energia alla smisurata megalopoli (la più grande del mondo con i suoi 26 milioni di residenti) mentre lasciano nella miseria e nell’arretratezza la regione. Le vediamo, questa miseria e questa arretratezza, qui, dove nemmeno i buoi da traino sono mai giunti e il lavoro è solo lavoro umano, fatica quotidiana di uomini, donne e bambini, condanna precoce che sottrae salute e benessere e istruzione (c’è il tasso di analfabetizzazione più alto del paese). Qui dove non è ancora mai giunta l’energia elettrica.

Le lucciole

Camminiamo nel buio profondo della selva, lasciandoci dietro le spalle il buio del villaggio senza alcuna tecnologia. Poi d’improvviso, ad uno slargo della foresta tutto si accende: sono miliardi di lucciole, grandi come lanterne davvero, miliardi che sciamano silenziose e lucenti, che volteggiano come fiori brillanti nell’aria. Si resta senza fiato e si pensa se davvero per avere le lucciole bisogna rinunciare a qualche necessaria comodità e se quest’ultima, per forza, implica la scomparsa di quelle, come lamentava Pasolini , il guerrigliero ora è affiancato da un altro, vestito e armato come lui, sbucato da chissà dove. Siamo giunti, intanto, ad una baracca in legno nascosta nella giungla.

Megalopoli

Per una strana associazione l’immagine di quella miriade di luci vive nelle selva mi ha ricordato la distesa infinita di luci sulle quali plana o si leva l’aereo che parte da Città del Messico o che vi giunge. La sterminata città non ha quasi più confini (travalica, infatti, gli stessi Stati interni della Federazione messicana) e ovunque lo sguardo si spinga, dall’alto, ovunque si scruti dalla carlinga d’aereo, non si vedono che luci, miliardi di luci in ogni direzione, luci ferme appena palpebranti nella selva insorgente del mondo contemporaneo.

Marcos

Il Subcomandante Insurgente Marcos ci aspetta dentro la baracca. E’ un uomo di statura media, atletico, dalla voce gentile e calma, sicura, giovanile come i pochi tratti che si intravedono sotto il passamontagna: qualche zona del collo, e gli occhi neri, profondi, intelligenti. Ha la solita tuta militare che si è vista in tante fotografie che ne hanno reso celebre la figura. Ha un fucile mitragliatore a tracolla, modernissimo sembra. Al collo un’inattesa catenina d’oro con un crocifisso sottile che pende. In mano ha la pistola celenre anch’essa ormai che depone per stringere le nostre mani e farci accomodare attorno a un tavolo di legno sul quale bruciano tre candele.

Ci presenta i suoi compagni il maggiore Moises, un indio, la comandanta Marianna, che dagli occhi e dalle mani sembra giovanissima e che seguirà la discussione senza dire una parola ma passando ogni tanto a Marcos dei bigliettini con delle riflessioni, degli appunti, che il “Sup”, come lo chiamami qui, legge con grande attenzione.

La terza figura, un altro indio massiccio e silenzioso, dagli occhi dagli occhi magnetici, è il Comandante Tacho, uno dei capi più famosi dell’esercito zapatista, una specie di Geronimo maya, fiero e autorevole.

La discussione si protrarrà per quasi quattro ore nella notte. E’ un colloquio, a metà tra la la discussione politica e il seminario teorico-culturale. Non ha niente di astratto, grazie anche a Marcos. E’ uno strano leader. La lama dell’ironia brilla sempre nei suoi occhi e vibra nelle sue parole, quai un controcanto alle cose gravi di cui dobbiamo parlare – la povertà, l’ingiustizia, il genocidio, la pressione militare che cresce ogni giorno di più.

Abbiamo visto direttamente passare due volte al giorno decine di carri e di blindati dell’esercito messicano attraverso i villaggi, a scopo intimidatorio e di controllo. I soldati fotografano e filmano tutto e probabilmente solo la presenza di osservatori stranieri impedisce atteggiamenti peggiori. E’ dunque anche grazie ai numerosi “accampamentisti” cioè i volontari internazionali che sono presenti in diversi villaggi a prestare lavori volontari (dall’istruzione di base al lavoro pratico in opere comunitarie) che la situazione non degenera.

Marcos ci chiede notizie della situazione europea e italiana. E ce ne fornisce sulla realtà messicana; in particolare delle comunità indigene e sui rapporti col governo, interottosi proprio quando sembravano produrre un importante pacchetto di decisioni che avrebbero conferito autonomia e dignità agli indios. Interrottisi stranamente, col rilancio di una politica di repressione militare a cui solo la forza armata dell’esercito zapatista e la volontà di far prevalere il dialogo messo in campo dalla impegnatissima Chiesa del Chiapas e in prima persona dall’episcopato guidato da Samuel Ruiz si sono finora opposti. Marcos dice che loro non vogliono il potere, che non vogliono la guerra, che odiano il militarismo e le armi. Dice che non hanno molto a che fare con le classiche esperienze guerrigliere latinoamericane. In effetti, tutte le immagini che in Occidente prevalgono non rendono la verità sugli zapatisti di Marcos. Da noi li si pensa in genere come un fenomeno tra il folklore indio e il guevarismo o il castrismo. Ma, da vicino, nella loro terra, non sembrano affatto riconducibili a questo. Sembrano qualcosa di nuovo. La loro linea politica e la loro riflessione teorica hanno, sempre, una dimensione culturale e, direi, antropologica, senza precedenti. Uniscono rivendicazioni di giustizia sociale ed economica sull’affermazione di una dignità etnica, di un’identità irriducibile, fiera dell’antichità del suo carattere (i Maya) e consapevole dell’attualità dei suoi programmi e dei suoi diritti. Non chiedono il potere, chiedono che il potere legittimo però si riarticoli e affianchi alla democrazia rappresentativa classica nuovi organismi di autogoverno coerenti con la tradizione comunitaria indigena, una sorte di estremo sviluppo del federalismo che rifondi veramente dalle origini, dalle radici la partecipazione e la condivisione delle decisioni. E chiedono che l’ondata neoliberista che travolge le economie del mondo, che la globalizzazione anche culturale che ne consegue, non travolga tutto, che venga fermata , incanalata, governata tenendo conto dei diritti fondamentali degli indigeni, cioè dell’uomo e della donna più poveri, e quindi di tutti. Chiedono questo, e in un modo nuovo, in una sintesi di nuova politica e cultura che non risulta affatto compresa in Occidente.

Per ora ne parliamo con Marcos e i suoi collaboratori – anzi i suoi capi come ci dice, perchè lui è solo “sub” un “vice”, mentre la “Comandancia” è in mano agli indigeni, al popolo.

Forse questa è una forzatura, ma certo gli zapatisti sembrano davvero organici alle comunità indigene, qualcosa di molto diverso dalle esperienze in cui erano gli intellettuali e i militanti della sinistra, di origine borghese in genere, a portare il “verbo” ai poveri. Qui le parti sembrano quasi rovesciate e Marcos nella sua ironia, nella sua intelligenza politica, dopo quindici anni di selva. Sembra essersi lasciato cambiare, assimilare dagli indios. Forse è proprio questo che fa paura al potere.

Guardias Blancas

Nella sede della Diocesi del Chiapas, uno stretto collaboratore del vescovo ci consegna un documento firmato che prova come la polizia messicana addestri le “guardias blancas”, l’esercito privato dei latifondisti, squadroni della morte responsabili di frequenti massacri di indios e campesinos.

E’ la prova che la pressione militare stia salendo sempre più e ormai potrebbe degenerare. Che la parola ultima spetti alle armi o, ancora, a un nuovo dialogo, dipende moltissimo dalla vigilanza e dalla pressione dell’opinione pubblica internazionale. Ma sarà difficile che si sviluppi con la forza adeguata se la novità di quanto accade in Chiapas non verrà capita fino in fondo.

E’ quanto riportiamo, soprattutto, da questo breve viaggio in una lunga storia, in un dramma antico e contemporaneo, interpretato da personaggi strani, anch’essi antichi e modernissimi, che lasciamo con la voglia di rivedere presto, di raccontare a tutti pur sapendo di sfidare luoghi comuni e pregiudizi.

Gianfranco Bettin

RASSEGNA STAMPA

Materiali originali disponibili presso:

Caminantes – Centro Studi e Documentazione sul Messico e l’America Latina

Napoli – Largo Banchi Nuovi NAPOLI Mail: csdm-caminantes@yabasta.it


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