Inaugurazione della nuova sede in Via Barbarigo a Padova, un’occasione di riflessione sulla Rojava e sul mondo

Aprire una sede nel cuore della città vuol essere un contributo a comprendere come le nostre vicende locali, a volte significative e a volte molto misere, oggi possano essere agite solo se riusciamo ad afferrare il tempo e la dimensione globale in cui viviamo. Da vent’anni a questa parte, abbiamo sempre pensato Ya Basta come una finestra aperta sul mondo, un ponte per connettersi con quel che avveniva altrove, una bussola da portarsi nello zaino per ragionare sul quel che facevi nel tuo territorio.

L’apertura di questa nuova sede vuole essere un contributo ancora una volta in questa direzione, uno spazio in cui approfondire la discussione per “camminare domandando”, come dicono gli zapatisti, e per costruire un diverso presente.

Nel corso dell’inaugurazione abbiamo voluto proporre dei temi, semplicemente i titoli di una discussione e di una pratica che ci piacerebbe affrontare con molte e molti altri.

Se guardiamo al mondo in cui viviamo e vogliamo essere realisti, onesti e materialisti, non possiamo negare di vivere nel tempo che possiamo definire del capitalismo globale finanziario. E non c’è possibilità di tornare indietro rispetto a una realtà dove il mercato stesso è uno spazio oggi totale, che determina da sé la propria sovranità, al di fuori di tutto quello che avevamo conosciuto in passato. Ed è questo spazio unico del mercato globale del capitalismo finanziario a definire oggi i tratti fondamentali di un’epoca di profondo cambiamento. In che senso?

Nelle epoche che abbiamo conosciuto, o che hanno conosciuto quelli che sono venuti prima di noi, ad ogni fase di sviluppo del capitalismo corrispondevano specifiche forme di sovranità, che a loro volta contribuivano a definire gli spazi di mercato.
Se pensiamo al secolo scorso, abbiamo avuto uno sviluppo degli Stati-nazione che rispondeva alla dinamica dello sviluppo capitalistico e che ha prodotto l’epoca dello scontro per il controllo dei mercati: il tempo del colonialismo prima e dell’imperialismo poi, fino al tempo della contrapposizione tra i blocchi.
Il mercato era qualcosa su cui gli Stati agivano a partire dalle sovranità nazionali per conquistarne delle parti, per definire chi ne era padrone.
In quel tempo era chiara la dialettica tra lotte (operaie o anti-coloniali che fossero) e sviluppo, lotte che spingevano sempre più avanti l’assetto capitalistico. Poi, grazie anche a queste lotte, alla fine dello scorso millennio, si è aperta la prima fase della globalizzazione capitalistica, col tentativo di affermare poteri sovranazionali, nella cornice di un impero a guida americana. E questo è stato anche il tempo del grande movimento “no-global”, che ha cercato di contrapporre alla semplice idea della globalizzazione del mercato l’idea della globalizzazione dei diritti, dell’affermazione in ogni dove del portato migliore dei cicli di lotta precedenti.
Anche come risposta capitalistica a questo tempo lungo del movimento “no-global”, abbiamo visto nascere e svilupparsi il tempo della crisi: una crisi che, a differenza dei precedenti storici analizzati e attraversati da teorici e movimenti, non era né una crisi di sviluppo, né una crisi di sovrapproduzione, né solamente una crisi di comando.
Una crisi permanente, che ci viene presentata come un orizzonte inamovibile ed è però accompagnata con forza dall’affermazione complessiva del capitalismo finanziario, di quel “finanz-capitalismo” in cui denaro produce direttamente denaro, e dove non vi è più alcun tipo di dialettica e mediazione possibile, come prima avevamo conosciuto, tra lavoro vivo, merci, denaro e sovranità.

Vorremmo provare a ragionare insieme a partire dal fatto che stiamo vivendo in diretta, ed a volte si crea un senso di disorientamento collettivo, il tempo in cui l’affermazione del capitalismo globale finanziario non si pone il problema di creare una nuova forma di sovranità politica.
In pochi anni abbiamo visto che si parlava di G8, poi di G20, poi di G2 ed ancora di FMI, di WTO et cetera … ma oggi nessuna di queste forme politiche sovranazionali è in grado di comandare il mondo.
In realtà quel che fa girare il mondo è lo sviluppo del capitalismo finanziario e del suo mercato come unico spazio possibile in cui contendono, talvolta si contrappongono, talvolta si alleano, si avvicinano e poi si allontanano poteri e potenze, che a volte sono statali, ma non solo.
Il mercato finanziario globale è lo stesso spazio in cui confluiscono i flussi prodotti dall’Apple ma anche dall’Isis, dagli Stati Uniti ma anche dal turbo-comunis-capitalismo cinese, dai grattacieli della City e dal narcotraffico, dalle nuove potenze economiche continentali come i paesi dell’America Latina alla Russia di Putin. In cui giocano attori statali, ma anche imprese mutinazionali, grandi studi legali e cartelli mafiosi.
In questa frammentazione di poteri ognuno cercar di affermare la propria presenza e il proprio ruolo, condividendo appieno quel unico ambiente capace di dettare a tutti le sue regole, che è lo spazio del mercato finanziario globale.

In questo quadro anche il tema della guerra può essere diversamente interpretato. Guardando la mappa del “piccolo” pezzo di mondo, di cui parliamo in questa occasione, cioè la Siria, c’è di tutto: c’è un regime dittatoriale, ci sono gli interventi delle potenze regionali, di quelle globali, ci sono gli integralisti islamici e ci sono anche compagni che resistono e lottano.
È come se quella mappa fosse la rappresentazione del mondo in un caleidoscopio, dove non vi è qualcuno che guida tutto con una regia unica.
Una volta era tutto più semplice: c’erano i blocchi, ad una mossa sovietica ne corrispondeva una americana, poi c’è stato il tentativo statunitense di definirsi come unico polo egemone, poi c’è stato un mondo in cui emergevano via via nuove potenze continentali, la Cina, l’India l’America Latina (e, a parte, un’Europa sempre traballante). Ma anche questa descrizione non è più sufficiente, perché il mercato unico globale è permanente, attraversato da soggetti che non rispondono più a una logica di sovranità statale, ma che agiscono come potenze, come centri di potere, al pari di altri.

Questi sono ovviamente solo alcuni titoli, temi da approfondire, perché l’idea è proprio che Ya Basta sia uno strumento per capire e per conoscere chi in altre parti del mondo si sta ponendo, come noi, profondi interrogativi nella prospettiva di contribuire a un cambiamento radicale, quanto mai necessario, anche se di fronte abbiamo grandi difficoltà nella costruzione dell’alternativa, della pratica del comune.

Noi ci mettiamo a disposizione per offrire stimoli, attenzione teorica, approfondimenti fuori dalle semplificazioni, perché oggi c’è quanto mai bisogno d’intelligenza, di creatività, di rottura degli schemi dati, per non limitarsi alla testimonianza e alla denuncia, ma per invece affrontare la ricerca in un presente in continuo divenire.

Partiamo oggi parlando di quel che succede in Rojava, che ci propone, nel rompicapo del nostro spazio Euro-mediterraneo, un’esperienza che nella straordinaria resistenza di Kobane, così come è avvenuto con la resistenza zapatista nella Selva del Chiapas, cerca di aprire uno spazio possibile di autonomia ed indipendenza, di autogoverno comunitario – multietnico, multiculturale, multireligioso – caratterizzato dalla continua ricerca di forme della decisione democratica che siano capaci di parlare ai molti, di assumere la pluralità come punto di partenza e di arrivo della pratica politica, di sfuggire ad ogni tentazione identitaria e autoreferenziale, e di confrontarsi con intelligenza con i rapporti di forza dati nello scenario complesso in cui si trova ad operare.

Di seguito vi proponiamo la trascrizione dell’interessante conversazione, avvenuta all’inaugurazione della sede operativa dell’Associazione Ya Basta con MARTIN GLASENAPP (vice-direttore per le relazioni esterne e la comunicazione di Medico International). di ritorno dalla Rojava.

Parto da qualche informazione su quel che sta dietro a ciò che vediamo in televisione, a partire dal fatto che come Medico International operiamo nella regione da tre anni, io personalmente ci sono stato tre volte, e sono di ritorno dalla Rojava da meno di tre settimane.
Prima di descrivere quel che succede in Rojava obbiamo accettare l’idea che parliamo di una parte della Siria.
Non è accettabile per gente di sinistra pensare al fatto che non puoi separare la situazione in Rojava dalla complessiva situazione in Siria. Parto da qualcosa che magari può sembrare poco educato dal punto di vista del “politically correct”: mentre noi oggi siamo seduti qui a discutere della Rojava e della resistenza curda, non ci sono state tante altre occasioni in questi ultimi anni gente di sinistra si sia trovata a discutere della resistenza e della rivolta ad Homs, ad Aleppo e nel resto della Siria.

Parlerò della Rojava, ma per far questo permettetemi di spiegare come si è arrivati a questa situazione in Siria.
Tutto questo è più facile, se citiamo fatti e numeri: pochi giorni fa l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) ha avuto modo di dichiarare, dati alla mano, che la situazione dei rifugiati in Siria è la più grande catastrofe umanitaria dell’ultimo secolo. Ci sono 23 milioni di abitanti in Siria e ci sono 8 milioni di rifugiati all’interno del paese e 4 milioni all’esterno tra Turchia, Giordania, Libano e Iraq.
Per esempio, in Libano ogni due esseri umani presenti uno è un rifugiato siriano. In Giordania la più grande città per dimensioni è un campo di rifugiati siriani. Il 60 % delle infrastrutture sanitarie in Siria sono state distrutte dalla guerra, l’economia è distrutta, non funziona più niente, le relazioni tra le persone, le forme in cui le comunità erano organizzate localmente, le relazioni di vicinato sono completamente saltate.
La situazione peggiore è nelle campagne, nei piccoli villaggi, in particolare nelle zono abitate dalla popolazione di origine sunnita. E quando parliamo di popolazione sunnita parliamo del 60% della popolazione siriana.
Se vogliamo dare una caratterizzazione, una connotazione allo scontro in atto in Siria possiamo dire che all’inizio questa battaglia si è giocata contro i villaggi, nei territori abitati dai sunniti. Questa è una maniera molto grezza di spiegare la situazione, ma è necessaria per comprendere come mai le forze dell’ISIS sono così rispettate in quelle aree.

Tutto è iniziato nella primavera del 2011, a partire dalle aree periferiche delle principali città siriane come Damasco, Homs e altre, che si erano riempite negli ultimi anni della popolazione contadina più povera, colpita dalla disoccupazione e soprattutto da quelle politiche di shock neoliberale, che Assad aveva imposto negli ultimi tempi distruggendo anche quel tessuto di relazioni, di scambi comunitari che all’interno del regime autoritario garantivano la sopravvivenza di larghi settori della popolazione.
Se volessimo fare un esempio paragonandolo con la situazione della Germania, dopo la fine del regime socialista nella DDR, possiamo dire che è come se avessero totalmente distrutto l’economia socialista di mercato in quel paese, ma avessero mantenuto solo la struttura dei servizi segreti; posssiamo dire la “via cinese” di ristrutturazione dello sviluppo.

Così è partita nella primavera del 2011 la rivoluzione in Siria, in maniera molto simile a quello che è avvenuto in Tunisia e nelle altre situazioni delle cosiddette “Primavere Arabe”. In una situazione che è nata non nel centro delle grandi città siriane, dove era più forte la presenza della vecchia sinistra, delle vecchie strutture del Partito comunista siriano, ma nelle periferie, nelle campagne, le realtà dove le parti più povere della popolazione si trovavano senza nome, senza identità, senza legami comunitari.
Una situazione molto simile a quella verificatasi in Tunisia o in Egitto: niente partito, niente strumenti e forme, cui siamo abituati nella tradizione di sinistra, anche quelle che abbiamo conosciuto in America Latina, con gli zapatisti o con altri. Non c’era partito, non c’erano leader, non c’era neppure una direzione di carattere militare in campo, e neppure le forme tradizionali di comunicazione politica cui siamo abituati.
C’erano solo le masse, la gente.

La dinamica è stata molto chiara:
 i luoghi di aggregazione erano le moschee, non perché la rivolta avesse un particolare contenuto religioso, ma perché erano gli unici punti possibili di aggregazione. Le manifestazioni partivano ogni venerdì dopo le celebrazioni religiose e dopo queste manifestazioni le manifestazioni successive erano dei funerali, perché c’era la repressione, i morti. All’inizio le manifestazioni erano pacifiche, poi sono diventate dei funerali, che sono diventati la necessaria risposta al regime.
In Siria non c’era niente di paragonabile a un tessuto di società civile, a spazi pubblici dove fosse possibile ritrovarsi, organizzarsi. Niente di tutto questo era possibile o pensabile.
Era un mix tra una dittatura, il potere di una famiglia e un regime socialista in stile orientale/est europeo. Basti pensare al fatto che la denominazione ufficiale dello Stato continua ad essere “Repubblica Araba Socialista di Siria”.

Adesso possiamo venire alla Rojava. Nessuno si aspettava che cosa è successo nei primi due anni di rivolta in Siria. Erano qualcosa d’inimmaginabile le dimensioni, la forza, la diffusione della rivoluzione contro il regime. Ogni venerdì in ogni villaggio, in ogni quartiere abitato dalla popolazione sunnita, c’erano manifestazioni e scontri con la polizia e l’esercito.
Tutto questo avveniva nella parte centrale del paese, quella più urbanizzata ed era qualcosa assolutamente fuori controllo del regime. Non c’era un centro della protesta, della rivolta per cui non c’era la possibilità di intervenire in termini puramente repressivi.

Quali sono stati i problemi di questa rivolta?
Il primo è che si trattava di una coalizione, di una alleanza semplicemente negativa, contro Assad. Questo significa che venivano avanzate tre rivendicazioni molto semplici: pane, dignità e libertà. Questo si traduceva nella richiesta: basta con il regime, con il sistema, via il Presidente. Ma senza alcuna idea di che cosa si sarebbe potuto costruire dopo.
Teniamo ben in mente che da questo punto di vista il nemico era uno stato secolare, uno stato laico. La religione era proibita in politica in Siria, nonera permessa alcuna commistione tra religione e politica. Ogni partito che avesse un approccio di carattere religioso era vietato. Ovviamente la religione era anche molto importante dal punto di vista del regime, per i rapporti con ogni comunità locale, con ogni moschea, con ogni singola minoranza religiosa. Ma ufficialmente nelle politiche del Baath era vietato qualsiasi riferimento alla religione. Quindi tu avevi questa situazione per cui, da una parte, ti trovavi a lottare contro uno stato laico, con questo discorso ideologico formalmente socialista, ma che aveva sempre gestito in maniera estremamente crudele tutti i problemi della società e l’idea trasmessa alla società siriana era che qualsiasi problema si ponesse dal punto di vista sociale lo si sarebbe affrontato soltanto con l’uso brutale della forza. Dall’altra parte, avevi però uno stato che garantiva istruzione anche superiore e universitaria gratuita, la sanità gratuita e che gli standard di vita medi erano, se paragonati alle altre situazioni mediorientali, incomparabilmente più alti.
Si tratta come potete immaginare di una situazione molto complessa, che non puoi interpretare, analizzare con i classici schemi marxisti.

Adesso non mi soffermo su come le potenze regionali di questa area hanno poi iniziato a fornire armi , organizzare milizie, ad inviare truppe. Questa è la seconda questione.

La prima è come è nata la rivolta e quali sono state le caratteristiche della rivolta.
Quando è iniziata la rivolta il regime è stato costretto a concentrare tutti gli sforzi dell’intervento repressivo sulle zone centrali del paese, perché è lì il centro dell’economia, della vita pubblica, il perno attorno a cui ruotava tutto il Paese. Il regime ha concentrato lì tutti gli sforzi.

Da un lato c’è dunque questa narrazione della rivolta, delle sue similarità con le altre rivolte delle “Primavere Arabe” e poi c’è un’altra storia, quella che riguarda i curdi di Siria, la Siria curda.

La storia della Siria è la storia tipica di uno stato post-coloniale, con una forma rigidamente autoritaria di assimilazione, di “arabizzazione” forzata.
Questo ha significato, fin dall’inizio della storia della repubblica, una forte pressione sulla minoranza curda, addirittura a volte più forte di quella subita dalla minoranza curda in Turchia, e sappiamo che cosa abbia sgnificato.

Se si guarda alla mappa oggi, vediamo i tre cantoni di quella che è la Rojava. Perché sono tre e sono separati?
Nel passato quando parliamo dei territori curdi di Turchia, Siria, Iraq, Iran parliamo di un unico spazio territoriale. A partire dagli anni Sessanta il Baath ha iniziato a costruire quella che hanno definito come la “cintura araba”. È lo stesso sistema con cui Isreale ha fondato e sviluppato gli insediamenti in Cisgiordania. Hanno preso le popolazioni più povere, le tribù lealiste che venivano dal centro della Siria e le hanno portate in mezzo ai territori curdi. Hanno privato dei diritti di cittadinanza i curdi. La definizione ufficiale era “esseri umani che attualmente vivono qui”, ma non cittadini. Questo significava che non potevano acquistare niente, vendere niente, non avevano il permesso di fare niente. Nei confronti di questa repressione c’è sempre stata una forte resistenza in termini di costituzione di un’identità curda, dal punto di vista culturale, linguistico, e degli stili di vita.
Ovviamente questa resistenza è stata profondamente ispirata da parte del movimento di resistenza curdo in Turchia.

Questo significa che per quanto riguarda la Turchia, per lo meno negli ultimi trent’anni, essere curdo non ha significato soltanto un approccio in termini di identità culturale, ma un forte approccio in termini politici.
Significava una precisa appartenenza, una ben definita identità politica.
Oggi questo è un approccio non nazionalistico, multietnico, multireligioso.
Questo significa molto in questa regione.
Questo è molto più del minimo che si possa fare.
Quindi parliamo di popolazioni che vivevano in Siria, ma si riconoscevano in un movimento poliico che aveva un retroterra in Turchia e che era questa forte idea, l’identità politica proiettata verso la costruzione di una società socialista, comunitaria, secondo le idee del PKK, di Abdullah Oçalan, della resistenza curda di Turchia.

Nel momento in cui il regime di Assad si è trovato nell’impossibilità di gestire la rivolta nel centro del paese, i curdi hanno fatto questo ragionamento: “bene, dacci la nostra possibilità di autodeterminarci, noi resteremo qui, noi non attaccheremo il regime, i lealisti, non organizzeremo spedizioni verso Damasco, vogliamo solo la nostra autodeterminazione nella Rojava. Se ci accetti, noi restiamo nei confini della Siria”.
Quello che, a quel punto, ha fatto il regime è stato dire: “bene, noi abbiamo un problema più grande da gestire, la situazione nel centro della Siria. Ai curdi possiamo pensare più tardi. In questo momento le scelte della minoranza curda nel Nord non sono una nostra priorità. “
Questo è l’inizio della storia della Rojava.

Questo spiega perché stiamo parlando di qualcosa di diverso dalla rivolta che è esplosa in Siria, ma al tempo stesso questo non significa che possiamo dimenticare ciò che è successo e sta succedendo in Siria e il diritto di tutta la popolazione siriana a rivendicare diritti e dignità.

Questo spiega perché la Rojava è un progetto di sinistra, è un progetto di emancipazione.
Perché a mio avviso e penso anche a tutti voi, è per questo che interessa quel che sta succedendo in Rojava.
È probabilmente per la prima volta da quarant’anni a questa parte, secondo me per la prima volta a partire dalla prima Intifada, che c’è finalmente nella situazione mediorientale, che è fatta di massacri, scontri, repressioni di tutti i tipi, un progetto che ha invece caratteristiche di emancipazione, di liberazione, un progetto non nazionalista, non settario, non di integralismo religioso.

Siamo qui nella sede di Ya Basta , ovviamente siamo colpiti, ci opponiamo se l’esercito messicano massacra gli indigeni in Messico, ma quello che ci interessa dello zapatismo è l’idea politica che sta dietro questa esperienza, perché è un’idea che parla un linguaggio di carattere universale, non concentrata solo nella Selva del Chiapas, ma che parla a noi tutti.

Questo spiega perché siamo in molti a essere interessati a quel che accade in Rojava ed anche perché Rojava è dappertutto. Che cosa significa? Che è ovunque dove ci siano dei curdi. Questo spiega anche perché ovunque vi sia una presenza curda e di amici della resistenza popolare curda, adesso c’è la possibilità di cambiare il punto di vista dell’opinione pubblica globale.
Tutti sanno dove è Kobane e che cosa è Kobane.

Affrontiamo adesso la situazione attuale e che cosa si dovrebbe fare.
Cerco di spiegare che cosa è successo e che sta succedendo, non da un punto di vista esterno, ma interno alla situazione siriana.
Noi abbiamo una rivoluzione che adesso è diventata una guerra civile.
Guerra civile significa milizie dappertutto. Milizie soprattutto nelle campagne, e soprattutto milizie pagate da altri paesi, da potenze straniere.
Se qualcuno pensa ancora a quel che sta succedendo con i vecchi schemi della sinistra, vi informo che nessuna di queste milizie è pagata dagli americani. Non sono pagati dalla CIA.
Sono pagati dagli stati del Golfo, non formalmente dai governi, per esempi dal Qatar, ma da ricche famiglie e clan di questi paesi.
Per il tipo di situazione che si è prodotta su scala globale, per il tipo di crisi della propria egemonia, gli Stati Uniti non avevano nessuna intenzione di intervenire in Siria. Quindi la radice di questa guerra civile non è un progetto imperialista degli americani per far fuori il regime di Assad. Loro volevano intervenire, ma certamente non in questo modo.

A tre anni dall’inizio della rivoluzione e poi del suo sviluppo in guerra civile, a tre anni dall’inizio della rivoluzione dei curdi nella Rojava, le milizie dell’Isis si sono spostate ed hanno deciso di attaccare la Rojava.
Questo utilizzando tutte le armi, in particolare le armi pesanti, che l’Isis aveva catturato nella regione irachena di Mosul. In particolare quelle armi pesanti che erano state fornite dall’Esercito americano al ricostituito esercito iracheno.
Questo significa che, quando in questi giorni gli americani hanno bombardato le postazioni dell’Isis a Kobane, hanno bombardato i propri armamenti.

Dall’altra parte abbiamo la Turchia.
La Turchia ha il suo problema interno con il movimento rivoluzionario curdo, per il modo con cui il movimento curdo pone il problema della democrazia in Turchia.
La Turchia non è soltanto un normale membro della Nato, dunque di un’alleanza politico-militare occidentale, è una sub-potenza regionale a tutti gli effetti.
Questo significa che gli americani devono chiedere, “pregare” la Turchia di concedere l’autorizzazione anche all’aviazione americana di utilizzare le proprie basi e lo spazio areo. Per esempio quella di Inçirlik è una base Nato, ma dove per volare l’aviazione statunitense deve ottenere l’autorizzazione dalla Turchia.
Da questo punto di vista gli americani sono andati letteralmente “via di testa” per l’appoggio dato dai turchi all’Isis.

Dopo aver conquistato Mosul, l’Isis, come sapete, ha attaccato l’area in cui vive la minoranza yazida.
In quel momento il naturale alleato degli americani, il governo del Nord Iraq, cioè del Sud Kurdistan, il governo di Barzani è completamente svanito e ha totalmente rinunciato a difendere gli yazidi.
Nelle montagne di Sinjar parliamo di 5.000 yazidi che non sono stati semplicemente ammazzati, ma sono stati letteralmente massacrati dall’Isis. Una vera e propria carneficina. 3.000 giovani donne e bambini presi come schiavi.
Ed è a questo punto che le formazioni guerrigliere del PKK dal nord e le formazioni della Rojava dall’ovest sono intervenute per proteggere e salvare gli yazidi.
Sono riusciti ad aprire un corridoio umanitario di 60 kilometri per portare al sicuro dalle montagne dello Sinjar la popolazione degli yazidi. Questo solo con furgoncini e armamento leggero. Questo è stato l’inizio del vero cambiamento nel come il mondo ha guardato alla popolazione curda di Siria.
Tutto il mondo doveva accettare l’idea che a salvare gli yazidi non era stato l’Occidente, l’esercito americano, Barzani o il governo dell’Iraq, ma era stata la sinistra rivoluzionaria curda.
I curdi “cattivi”, inaccettabili, quelli che credono “nella caduta degli dei”, e che hanno come proprio riferimento Oçalan.

Questa è stata anche la prima volta in cui l’esercito americano è intervenuto, perché la città di Erbil era in pericolo. Dal punto di vista degli americani le montagne del Sinjar non erano importanti, mentre Erbil era decisiva, non potevano permettersi la caduta di Barzani. Ed è a questo punto che i governi occidentali, anche la Germania per la prima volta, hanno iniziato a rifornire di armi i curdi, ovviamente quelli del nord Iraq, per iniziare la controffensiva e spingere l’Isis fuori dai territori del Kurdistan iracheno, di nuovo verso il centro della Siria, verso Raqqa che è il loro quartier generale.

In questo momento inizia il flusso dell’Isis verso Kobane. Perché?
Ci sono diverse ragioni.
Distruggere Kobane significava distruggere il cantone centrale dell’esperienza della Rojava, lasciare solo i due cantoni più periferici. Distruggere Kobane significava distruggere l’idea di un autogoverno comunitario della regione.
Conquistare Kobane significava avere un tratto completamente libero di 150 kilometri di confine con la Turchia. Questo significava che lo Stato Islamico era ai confini dell’alleanza occidentale.

Il secondo punto era distruggere Kobane perché dal punto di vista politico del progetto della Rojava, Kobane è molto importante.
La farò breve, ma questo è un punto molto importante. Anche prima che iniziasse la rivoluzione c’erano molti e diversi partiti curdi in Siria. C’erano piccoli partiti, partiti a struttura familiare, partiti della classe media. Più o meno tutti collaboravano con il regime. La regione di Kobane è estremamente povera. La città di Kobane è stata fondata solo negli anni Trenta, dopo la Prima guerra mondiale. Fino ad allora non c’erano realtà urbane, c’era soltanto un punto dove si trovavano popolazioni nomadi. La popolazione è nel frattempo cresciuta, però parliamo di una realtà molto isolata, dove vivevano i più poveri.
Quando è nata e si è sviluppata l’esperienza del PKK in Turchia, hanno iniziato a fare intervento politico soprattutto nelle aree dove la popolazione curda era più povera. Per quanto riguarda la Siria il PKK iniziò ad intervenire ed a lavorare proprio su Kobane. Questo significa che, anche dal punto di vista delle dinamiche politiche interne al movimento di liberazione curdo, Kobane è il vero cuore della Rojava. Molti leader, molti combattenti del PKK vengono da Kobane, che è stato il primo dei cantoni a dichiararsi indipendente.
Questo significa che dopo la prima settimana degli attacchi dell’Isis, quando la resistenza a Kobane ha dichiarato “noi non ci arrenderemo mai, devono massacrarci tutti, venirci a prendere casa per casa”, questo non significa immaginare la Masada dei curdi o la Stalingrado dei curdi, ma significa che se non fossero stati in grado di proteggere Kobane, il cuore appunto della rivoluzione curda, nessun altro cantone si sarebbe più sentito sicuro.

Tanto per capirci, anche se tu hai un preciso progetto politico questo non significa che l’intera popolazione sia completamente convinta, devi continuamente convincerla. Una larga fetta della popolazione di Rojava sta dicendo “non è che io sia proprio convinto di queste curiose, strane idee di Oçalan”, però intanto io qui sono protetto.

Non succede proprio dappertutto da quelle parti che ci siano donne che danno ordini, che non prendono ordini, che si organizzano e sono protagoniste.
Tanto per capirci la responsabile delle forze di polizia a Kobane è una ragazza di 28 anni. E’ lei che da gli ordini agli uomini. In ogni settore, in ogni parte di questo sistema di autogoverno comunitario, c’è un preciso sistema di quote: c’è un uomo e una donna. Dappertutto è 50 e 50. Qualsiasi cosa succeda a casa, da un punto di vista pubblico è 50 e 50.

Questo significa che non è certo che tutti siano entusiasti di questa situazione, dell’idea di costruire una società così. Se Kobane fosse caduta, il messaggio per la gente della classe media, per i cristiani, per gli armeni, per le altre componenti della popolazione ed anche per tutti i rifugiati che sono arrivati dalle zone centrali della Siria, sarebbe stato “voi non siete in grado di proteggerci e le vostre idee politiche mi convincono ancora meno”.
Questo lo sappiamo anche per la pratica nostra politica di sinistra, negli ultimi vent’anni in Europa, che se noi avessimo solo avuto a che fare con la gente totalmente convinta, avremmo sicuramente sempre perduto.
Costruire una società non significa costruire un partito.
E’ qualcosa di più e di più complesso. Questo significa che se in Kobane fossero rimasti solo quelli convinti, i ragazzi di 20 e 25 anni in armi, che erano convinti di combattere fino alla morte, avrebbero perso. Invece per loro è stato assolutamente necessario, un bisogno fondamentale, avere intorno anche quelli più moderati, i liberal, e porsi il problema della costruzione di uno spazio pluralistico di partecipazione e consenso attorno a questa esperienza.

Ed anche per noi esprimere solidarietà a Kobane e sviluppare iniziative di solidarietà significa semplicemente dare a questo esperimento democratico una possibilità in più.
È solo una possibilità, noi non sappiamo quali saranno i risultati, ma il nostro dovere è lavorare perché abbiamo questa possibilità.
Noi non sappiamo come andrà a finire, potrebbe anche finire in un’altra Albania.
Il punto adesso è questo: oggi pare che la città sia stata liberata, grazie alla coraggiosa resistenza del popolo di Kobane, grazie alla incredibile e straordinaria resistenza della popolazione curda in Turchia ed anche grazie, anche se è più difficile e complicato come ragionamento da fare, all’aviazione degli Stati Uniti d’America che hanno bombardato l’Isis.
Questa è la realtà che noi dobbiamo accettare e comprendere.
La città è liberata, ma sono circa 300 i villaggi nelle campagne che sono ancora sotto la pressione dell’Isis, e tutti i rifugiati che sono al di là del confine turco vogliono ritornare indietro nelle loro case.

La richiesta principale che viene dalla popolazione di Kobane e che noi dobbiamo tenere ben in mente, se pensiamo a cosa è necessario fare, al di là di tutte le discussioni complicate sul ruolo della Nato o che avvillupano la sinistra europea sul fatto se sia giusto o no mandare armi, è quella di avere un corridoio umanitario.
È un corridoio umanitario non per andarsene, ovviamente lo devono poter usare anche le persone anziane o con problemi che vogliono uscire, ma soprattutto per arrivare, per poter far entrare a Kobane tutti i miliziani, tutti gli attivisti che vogliono partecipare alla resistenza e alla riconquista di tutta la regione.
Un corridoio dove possano passare tutte le cose che servono, sia da un punto di vista umanitario, sia da un punto di vista militare.
Questa è una grande opportunità per questa sinistra europea che si pone sempre il problema di discutere sull’imperialismo, i piani della Nato, che cosa sta dietro a tutto questo et cetera.
Qui e ora invece il problema è molto semplice: la lotta di Kobane è tutt’altro che finita, “dateci gli strumenti per combattere questa battaglia.”

La cosa importante con cui vorrei chiudere è che evidentemente lo spirito di Genova 2001, lo spirito della resistenza non è finito.
Ci sono posti che noi non avremmo mai immaginato, come queste regioni del Kurdistan, che ci costringono a pensare questa possibilità del cambiamento, non soltanto per fare qualcosa per i curdi, ma nei prossimi mesi ci costringeranno a pensare che cosa possiamo fare con i curdi, insieme a loro.


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