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Iran - "Avete rubato il voto" I ragazzi inseguiti assaltano le banche

Claudio Gallo - Inviato a Teheran di LaStampa

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In questo articolo si parla di:

  • 8/700 Iran

La rabbia dei sostenitori di Mousavi: «Ahmadinejad dittatore». La polizia aggredisce anche i giornalisti italiani

Sabato mattina, tutti aspettano che Mousavi parli. Ci sono molte voci incontrollabili, si dice che Rafsanjani e i candidati sconfitti siano andati a protestare dalla Guida Suprema Ali Khamenei. A chiedergli una via d’uscita dall’impasse. Si dice che il potentissimo ex presidente Rafsanjani si sia dimesso da tutte le cariche. Davanti alla sede della campagna elettorale si stanno radunando supporter e giornalisti. C’è molto nervosismo. Intorno è pieno di agenti che tengono in mano i manganelli «tonfa», quelli col manico laterale. Shahram, 35 anni, impiegato di banca, un ragazzone con la barba incolta, sta piangendo. Dice: «Ieri sera alle 11 e 30 Mousavi aveva già 18 milioni di voti, poi tutto è cambiato». Uno del servizio d’ordine lo tira dentro alla porta, lo rimprovera: «Non possiamo parlare con nessuno, lo sai». Moshai, 18 anni, occhiali e camicia a quadretti, sussurra che il voto è una bugia, «la gente vuole sapere la verità» dice.

La polizia grida che tutti devono andarsene subito. È pieno di agenti in borghese. Qualcuno fotografa, non si capisce se è un reporter o uno sbirro. Spingono via la gente battendo fragorosamente i manganelli contro i paraurti delle auto parcheggiate, per intimidire la gente. Un ragazzo si prende una bastonata da un poliziotto tarchiato in divisa verde chiaro, gli urla «vergognati bastardo». L’altro continua a picchiare urlando: «È da otto giorni che sono qui a proteggere gli stronzi come te». Comincia il parapiglia, gli agenti spintonano via tutti, anche i giornalisti. In quel momento nella stretta via passa rombando un reparto antisommossa su Honda enduro, i caschi e i giubbotti antiproiettile neri, sotto la mimetica.

«Reporter, fuori di qua!»

Cerchiamo riparo nell’androne di un portone di ferro traforato, dei ragazzi, probabilmente verdi, ci tirano dentro per aiutarci a scampare le manganellate. Sbattono l’uscio in faccia a un agente in borghese che cercava di entrare. Si insultano attraverso la grata. Cerchiamo di uscire per scappare dalla strada che è diventata troppo pericolosa. Uno della squadra politica, grande come un armadio, giubbotto e jeans, il walkie talkie in mano, vede che sono straniero e mi spintona via senza troppa convinzione. All’incrocio della strada c’è un parapiglia, ci mescoliamo con i passanti ma la polizia fa un’altra carica. Di fianco a me, tre giornalisti giapponesi e il loro interprete vengono arrestati. Gli ritirano i tesserini e li portano via. Un poliziotto piccolo e quadrato, con gli occhi strabici, tira una manganellata nelle gambe al mio interprete che si accascia imprecando. Faccio meccanicamente vedere il tesserino da giornalista alla montagna umana che mi aveva spinto prima, così evito di prendermi una botta da un agente che sta arrivando. Mi fa segno: vattene. Sarà tifoso di qualche squadra italiana. Lentamente, l’interprete zoppica, riusciamo ad allontanarci e a tuffarci dentro un taxi. Poco più in là, veniamo a sapere, hanno aggredito una troupe del Tg3.

Via verso la sede del giornale Etelaat, vicino alla stazione del metrò di Hagani, nel Nord Est della città. I cellulari funzionano male, in serata smetteranno di funzionare, cerco un noto politologo per avere un parere sul voto: mette giù il telefono al primo squillo. La gente ha paura. Mousavi deve fare un’intervista alle due, nella redazione del quotidiano Etelaat. Due tecnici della Bbc stanno andando là in moto con un cavalletto a tracolla. Arrivati all’enorme palazzone di vetro e cemento, c’è poca gente ma tanta polizia. «Non c’è nessuna conferenza stampa, annullata», dice un agente in divisa verde che ci strattona via. Accanto c’è un furgone pieno di agenti antisommossa. Hanno appena pestato un gruppo di ragazzi dell’onda verde, due hanno il volto coperto di sangue. Mousavi non parla ma diffonde un comunicato che l’ineffabile tv di Stato non trasmette. Protesta contro le violazioni della legge durante il voto, dice: «Avverto che non mi arrenderò a questa pericolosa sciarada che mette in pericolo le fondamenta della Repubblica islamica». Corrono voci che l’abbiano arrestato, ma nessuno è in grado di confermare. In città si sente in continuazione il suono delle sirene della polizia e delle ambulanze.

Viale Vali Asr in fiamme

Mentre scende la notte, cortei di giovani con gli striscioni verdi allagano le strade del centro. È partita la rivolta. Gridano: «Ladri, ladri», «Ahmadinejad dittatore». Il traffico è paralizzato, il suono continuo dei clacson fa da contrappunto al lamento dei lampeggianti. Gli agenti antisommossa attaccano i cortei in diversi punti, testimoni parlano di colpi sparati in aria. I manifestanti incendiano tutti i cassonetti dei rifiuti del centro dopo averli rovesciati. Da piazza Vali Asr fino quasi a piazza Fatemi si respira un odore acre di plastica bruciata. Hanno gettato dei grandi chioschi in mezzo alla strada. Brucia una motocicletta, forse della polizia.

Assalto alle banche

Passano diversi cortei intorno all’hotel Laleh, nuvole di fumo si levano ai lati della strada. Poi arriva la polizia antisommossa e si schiera attraverso la strada. Hanno devastato una banca nel quartiere di Motehari. Il grosso dei manifestanti sta salendo viale Vali Asr. I lacrimogeni della polizia colpiscono anche la nursery di un ospedale che deve essere sgombrata. Poco più in là, in via Hafez, i ragazzi stanno attaccando un’agenzia della banca Sina. Rompono le vetrine a bastonate: parte stridula la sirena dell’allarme. Intorno bruciano i cassonetti, c’è una confusione surreale. Un giovane con la camicia a scacchi parte con un lungo palo e si mette a colpire il bancomat. La rivolta si ferma sulla soglia di piazza Fatemi, a un passo dal ministero dell’Interno, dove sono ammassati molti poliziotti dei reparti speciali, ci sono anche militanti di Ansar e Hezbollah, un gruppo di fanatici islamisti, pronti a menare le mani. Nel corso sotto l’albergo Laleh a forma di tulipano, passano tre ambulanze in fila a sirene spiegate. Il timore è che i colpi in aria scendano ad altezza d’uomo e domattina si debbano contare i morti. Mohammed, 30 anni, dice che l’onda verde sta gridando la sua rabbia in piazza. «Ahmadinejad è un dittatore», dice mentre con un gruppo di amici si allontana dalla zona degli scontri. Si gira un’ultima volta per urlare: «Ci hanno rubato il voto».

14

Giugno

2009

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