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Sono passate tre settimane dall’inizio del nostro viaggio. Alcuni dei ragazzi della Carovana stanno rientrando, altri continueranno a camminare, lungo la strada di ferro, che attraversa gli stati a nord del Brasile per trasportare oro, ferro e acciaio fino al porto di Sao Luiz e da lì in tutto il mondo.
Partiti da Salvador, abbiamo conosciuto i luoghi dell’inizio della storia dei popoli africani in Brasile e quelli dei primi coloni, i garimpeiros, giunti da ogni luogo in cerca di fortuna, oro e diamanti.
Abbiamo sorseggiato una caipirinha nelle splendide spiagge oceaniche e mangiato farina e fagioli assieme a chi oggi cerca di costruire un nuovo mondo; abbiamo ascoltato la voce dei nipoti degli schiavi che ancora oggi devono lottare per la propria vita e la propria libertà. Abbiamo conosciuto persone che lottano a fianco di chi si vede negato ogni giorno il diritto ad una esistenza dignitosa, ne abbiamo conosciute altre, che indifferenti continuano a banchettare, scordandosi degli ultimi.
L’altro giorno, ho chiesto ai ragazzi che accompagno in questo viaggio di dirmi le loro impressioni sul Brasile.
“Immenso, complesso, contraddittorio”, sono state le parole di alcuni. Per altri il silenzio è stata la risposta. E’ difficile parlare del Brasile.
C’è un detto che dice “chi sta in Brasile un mese, scrive un libro, chi ci sta un anno, un articolo di giornale. Chi ci sta tutta la vita, non scrive proprio nulla”.
Mi ritrovo in queste parole, perchè viaggio dopo viaggio, con l’accumularsi della conoscenza, diventa sempre più difficile trovare il modo di raccontare, trovare le parole per spiegare quanto sia dura e precaria l’esistenza di questi popoli, ieri schiavi dei colonizzatori, oggi schiacciati da un sistema economico che li vuole zitti e sottomessi...
Mentre scrivo alcuni di questi appunti, siamo in viaggio.
Abbiamo attraversato in autobus il nord della Bahia e gli Stati di Pernambuco e Piauì, per arrivare all’alba nella città di Sao Luiz, in Maranhao.
Ore e ore di terra incoltivata da entrambi i lati della strada. “O sertao” nordestino...
Terra rossa e secca. Piena di arbusti, cespugli e cactus.
In questa zona le campagne sono praticamente disabitate. I grandi latifondi improduttivi imperversano, interrotti soltanto da sporadiche comunità rurali, case di piccoli proprietari sorte lungo le strade principali e dagli insediamenti e occupazioni dei movimenti campesinos.
Per il resto è solo terra... terra... terra...
E’ impressionante quanta ce ne sia, e i proprietari si possono contare sulle dita di una mano. Pensare ai km di favelas che passano sotto gli occhi quando si lascia Salvador, pensare a quanta lotta ci sia dietro alla conquista di un pezzo di questa terra, e vedere tutta questa ricchezza abbandonata a se stessa ti lascia con troppe domande e nessuna risposta.
Il faraonico progetto di Tranposiçao del Rio Sao Francisco prevede la creazione di acquedotti e canali di irrigazione a beneficio delle popolazioni di queste terre. Prevede, perchè in realtà, una volta irrigate, queste zone incolte e secche saranno sicuramente vendute alle grandi multinazionali dell’eucalipto, della soia e della canna, e il popolo nordestino continuerà a soffrire, costretto a migrare verso le favelas e il sud del Paese.
Così avviene già in Maranhao, terra verde e fertile, già spartita tra i “grandi” del mondo.
Il nostro viaggio continua. Dove un tempo cresceva rigogliosa la foresta amazzonica, ora ci sono pascoli e un forte odore di legna bruciata per produrre carbone.
I boschi di eucalipto si estendono per decine di chilometri quadrati ai lati delle strade che percorriamo. Sono di proprietà della Companhia Vale do Rio Doce, che ha bisogno di alimentare le sue acciaierie e industrie siderurgiche. Lunghissimi treni carichi di ferro e acciaio percorrono ogni giorno la ferrovia che costeggia la strada che percorriamo; il loro carico attraverserà l’oceano e ai brasiliani non resta che mangiare la polvere prodotta dalla ciminiere senza filtri, troppo cari per la più grande potenza mineraria del mondo...
Che ne sarà di questo Brasile? Saccheggiato, abusato, svenduto dal suo stesso governo.
“Si sono scordati che qui esistono esseri umani!” Le parole di una compagna del MABE di Alcantara continuano a rimbalzarmi nella testa. E nel cuore.
Di fronte al mito del “progresso” e agli indici di crescita, non ci si ferma a pensare a milioni di uomini, donne e bambini che continuano a chiedere solo di poter vivere una vita libera e dignitosa, qui, in Brasile, e in tanti altri paesi del mondo, e che invece si vedono negati questi diritti da oltre 500 anni.
Sono tante le voci che abbiamo ascoltato in questo viaggio. Ognuna ha una storia e una sofferenza diversa, ma una cosa in comune: la forza di dire “basta!”, di organizzarsi e di lottare per un sogno che forse non vedranno mai, ma che un giorno si realizzerà. Il sogno di un mondo giusto, senza odio nè violenza, senza oppressi nè oppressori.
Ed è questo il sogno che ci dà la forza di continuare a camminare...
Elisa Lindner, per l’Associazione Ya Basta!