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"Agua para vida!"...Sulle rive del Rio São Francisco

Carovana Brasile’08

Ya Basta Reggio Emilia

In questo articolo si parla di:

  • 202/677 Brasile

La Carovana si è fermata per alcuni giorni nello Stato di Pernambuco, al confine nord della Bahia, sulle rive del Rio Sao Francisco, dove è iniziato il Projeto de Transposiçao, per conoscere il MAB (Movimento dos Atingidos por Barragens) che lotta a fianco delle comunità rurali, indigene e quilombolas, contro la costruzione delle dighe, delle centrali idroelettriche e la privatizzazione delle risorse idriche del paese.

Attualmente in Brasile sono presenti circa 2mila dighe e la previsione è che ne vengano costruite altre 1443 entro il 2020, con il conseguente sgombero di circa 800mila persone. Già in passato la costruzione di centrali idroelettriche e la creazione di laghi artificiali ha espulso dai propri territori oltre 1milione di residenti. La maggiorparte delle dighe brasiliane è stata privatizzata negli anni ’90, sotto il Governo di Fernando Henrique Cardoso, e sono di proprietà di imprese europee, canadesi e statunitensi, e il costo dell’energia elettrica è altissimo per le famiglie brasiliane.

Il MAB è un movimento autonomo cominciato verso la fine degli anni ’70 nel sud del Brasile, e oggi è presente in 17 stati brasiliani; si occupa principalmente di organizzare, formare e accompagnare le comunità contadine che si trovano in situazione di difficoltà a causa della presenza di dighe nei loro territori. Negli ultimi anni, il MAB collabora attivamente con il MST e altri movimenti e sindacati rurali, organizzando seminari, manifestazioni e occupazioni per protestare contro la politica economica del neoliberismo e il modello di agrobusiness che viene implementato sul territorio brasiliano. Nella regione di confine tra Bahia e Pernambuco sta organizzando la resistenza delle comunità locali al megaprogetto federale di Trasposiçao do Rio Sao Francisco, che prevede la costruzione di due dighe, per formare un immenso lago artificiale, e di due enormi canali di irrigazione che attraverseranno le zone del semi arido nordestino.

Questa parte del Brasile è la zona più arida del paese e la sopravvivenza è possibile solo lungo le rive del fiume. Dopo la costruzione delle dighe le nuove terre fertili verranno vendute alle multinazionali della frutticultura e della cellulosa, l’accesso all’acqua verrà negato perchè le centrali idroelettriche sono di imprese private e le comunità saranno separate e ricollocate in altri punti dell’entroterra, come è già successo quando sono state costruite le dighe di Sobradinho, negli anni ’70, e di Itaparica, nell’88.

Dietro la giustificazione di risolvere i problemi delle popolazioni locali di una delle zone più secche del paese, c’è in realtà un forte interesse economico dello Stato e delle multinazionali legate all’agrobusiness e delle imprese idriche private, che non si importano della presenza di comunità rurali, indigene e quilombolas nelle aree che verranno inondate. Nella zona verranno probabilmente costruite due dighe, Riacho Seco (lunga 7 km e alta 15 metri) e Pedra Branca, per formare un enorme lago artificiale; a partire dal prossimo anno, circa 22.000 persone dovranno lasciare le loro terre di origine e non si sa dove verranno ricollocate nè quali diritti verranno garantiti.

La Carovana di Ya Basta si è recata anche in uno dei cantieri di costruzione dei canali artificiali del fiume São Francisco, presso Cabrobò, presidiato permanentemente dall’esercito brasiliano per evitare proteste e occupazioni, come è avvenuto a luglio dell’anno scorso. Fingendo di essere studenti universitari interessati al faraonico progetto del governo brasiliano, il gruppo e un rappresentante del MAB e del Sindacato dos Trabalhadores, scortati dall’esercito, sono potuti entrare nei cantieri.

Il giorno prima la Carovana ha visitato alcune comunità tradizionali (Cupira, Inhanhum e Serrote) residenti nel Municipio di Santa Maria da Boa Vista, che vivono di agricoltura, caccia e pesca, ai margini del fiume. La minaccia di sgombero ha portato le comunità a unirsi e organizzarsi, grazie al lavoro del MAB della regione e del Sindacato do Trabalhadores Rurais della città, per denunciare le violenze e gli abusi che dovranno affrontare a causa dello spostamento forzato in altri territori. La maggiorparte di queste realtà sono “quilombolas”, cioè gruppi di famiglie che discendono da schiavi fuggiti in epoca coloniale che si sono rifugiati lungo le rive del Rio e nei secoli lo hanno popolato.

Un decreto legislativo dichiara che “le comunità remaniscentes dos quilombos” non possono essere tolte dalle loro terre nè ricollocate in altri luoghi” perchè sono aree protette, patrimonio culturale del Brasile. Nonostante questa disposizione, sono ormai centinaia di migliaia le famiglie che in tutto il Brasile hanno dovuto abbandonare le proprie terre di origine, con conseguenze devastanti dal punto di vista economico e sociale: destrutturazione dei nuclei familiari originari, perdita delle tradizioni culturali, proprie dei popoli indigeni e quilombolas, difficoltà di adattamento alla nuova realtà, collasso economico, prostituzione, violenza e fame.

Un grande problema che devono affrontare i militanti del MAB nel loro lavoro di formazione e denuncia, è che molte persone sono convinte che trarranno beneficio dalla costruzione di dighe dall’opera di Transposição, e che riceveranno un indennizzo economico. In realtà è stato fatto soltanto un semplice censimento dei nuclei familiari presenti nella regione e non è stata fatta nessuna proposta concreta per quanto riguarda la ricollocazione delle comunità. Guardando all’esperienza delle comunità sgomberate dopo la costruzione della diga di Itaparica, si è visto che le comunità impiegano circa 20 anni prima di riuscire a ritrovare un equilibrio economico e sociale al proprio interno; le indennizzazioni sono state ottenute soltanto dopo anni di lotta e proteste e molte famiglie sono state ricollocate in territori aridi e lontani dalle risorse idriche che non gli hanno permesso di sviluppare una attività agricola redditizia, riducendole alla fame e costringendole a una migrazione forzata verso le favelas delle grandi città.

“Quello di cui abbiamo bisogno – raccontano i rappresentanti delle comunità, impegnati in prima linea nella difesa dei loro territori – è che si sviluppi un progetto che tenga conto in primo luogo delle richieste delle popolazioni locali e non degli interessi delle multinazionali e dell’agrobusiness. Dobbiamo imparare a sfruttare le risorse del nostro paese in modo che favoriscano tutti e non solo qualcuno.”

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01

Agosto

2008

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