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VI – GUARDARE L’AZZURRO.

IL CALENDARIO E LA GEOGRAFIA DELLA MEMORIA.

Associazione Ya Basta Caminantes

In questo articolo si parla di:

  • 674/674 Messico

“Se per quelli de arriba, noi de abajo siamo solo insetti. Pungiamoli!”
Don Durito della Lacandona.

Molte volte abbiamo detto che la nostra sollevazione zapatista è contro l’oblio. Permettetemi allora di andare un po’ indietro con la memoria.
Alcune lune fa, percorrendo una delle zone dell’irregolare territorio zapatista, ci siamo riuniti con un gruppo di ufficiali combattenti, Comandanti e Comandante, per esaminare alcuni problemi.
Uno di questi era che molti anni fa, su richiesta di un governo di zona, alcuni villaggi avevano dato dei contributi per mettere in piedi una cooperativa che dopo un po’ di tempo, era stato detto, avrebbe loro corrisposto ciò che avevano dato.
Ovviamente, come succede ogni volta che c’è un errore, nessuno si ricordava chi aveva sollecitato la cosa, a quanto ammontavano i contributi, da parte di chi erano arrivati, come era finita con la cooperativa, eccetera. Al momento di determinare le responsabilità, siamo arrivati ad un buco nero.
“Il problema” disse uno degli ufficiali combattenti, “è che noi non ci ricordiamo molto bene di come sono andate le cose. Però la gente si ricorda di tutto ed è arrabbiata perché non le diamo spiegazioni.”.
“Questo è il problema. Il popolo non dimentica nulla”.
Un altro ufficiale disse quello che stavo per dire io:
“Come, questo è il problema? Semmai, questa è la nostra forza. Se il popolo dimenticasse, non starebbe nella lotta”.
“Esatto”, rispose il primo ufficiale.
Guardai i Comandanti e le Comandante. Non fu necessario domandare niente, nello stesso momento mi dissero:
“Vogliamo che il Comando Generale indaghi per risolvere il problema”.
“Va bene”, dissi io.
Detti indicazione di cercare Elias Contreras e di passargli tutti i dati che avevamo.
Non passarono molti giorni, quando arrivò il rapporto di Elias.
In effetti, in uno di quei rari periodi di bassa pressione militare, il governo di zona, prevedendo che non sarebbe durata a lungo, propose di fare una cooperativa, per avere in mano qualcosa quando si sarebbe stretta la morsa un’altra volta. Il CCRI di quella zona era d’accordo e propose la cosa ad alcuni villaggi, ed anch’essi accettarono. Arrivò, effettivamente, il momento della pressione militare e tutto quello che aveva accumulato la cooperativa fu inviato ai villaggi che stavano accogliendo gli sfollati. Fin lì, tutto pulito e senza problemi. Però...cito parte del rapporto di Elias Contreras:
“Il problema, Sub, è che né il governo né i comitati hanno informato i villaggi. Da allora sono passati alcuni anni, non molti ma neanche pochi, e i villaggi si ricordano di questa cosa e stanno chiedendo al Comando Generale di vedere cosa è successo, perché non accada come con i priisti che fanno le cose in modo rozzo e non informano.
Qui, a parte, ti metto quello che penso io. Sub, te lo dico chiaro, hanno fatto una cazzata, perché può essere che a volte non ci siano cose buone da mangiare, o non ci siano vestiti, o medicine, o sembra che non passi la giornata con tutti i problemi che ci sono, però la memoria non manca mai”.
Si fece una ripartizione delle sanzioni che toccavano a ciascuno, si fece un resoconto ai villaggi e si diedero indicazioni per fare un censimento di chi aveva dato un contributo e di quanto, e si dispose che gli fosse ridato quello che aveva versato, attingendo dal fondo di guerra.
Le commissioni si recarono ai villaggi in questione. Dopo poco ritornarono e fecero il loro resoconto. Tutto era andato bene, meno che nel villaggio di San Tito. Il fatto è che un compagno, che già era in età avanzata, si era rifiutato di ricevere quello che aveva versato. Gli avevano spiegato tutta la storia più e più volte, ma il compagno si era impuntato, non avrebbe accettato e basta. Le commissioni passarono tre giorni e tre notti a cercare di convincerlo, e niente. E siccome già dovevano ritornare agli altri lavori, lasciarono la somma al responsabile del villaggio, con la raccomandazione di convincerlo.
Domandai all’ufficiale che accompagnava la Commissione cosa era successo. Questo è quello che mi disse:
“Si tratta del Chompiras. Non so se ti ricordi di lui, Sub. E’ quello che aiutò a tirar fuori i feriti dal mercato di Ocosingo, quella volta nel ’94. E poi gli hanno ammazzato due figli, quando ci fu il tradimento del ’95. E’ uno dei primi che entrarono nella lotta da queste parti. Si ricorda sempre del Signor Ik. Non parla quasi mai. Sta sempre zitto. Però Sub, beh, quando gli abbiamo parlato, di colpo si è alzato in piedi. Ci ha perfino sgridato. Ci ha detto chiaro e tondo che lui ha una memoria più buona di ciascuno di noi. Maledetti ragazzini, ci ha detto (l’ufficiale ha quasi 30 anni). Che forse non sappiamo che il Signor Ik ha spiegato che la lotta non finisce, fino a quando non è finita, cioè quando già tutto va bene. Che lui non avrebbe ripreso neanche un soldo, perché lo ha dato per la lotta e la lotta non è finita”.
“E voi cosa avete fatto?”, gli chiesi accendendomi la pipa.
“Niente, cosa dovevamo fare. Siamo scappati via perché ci ha rincorso con il machete. E ci ha detto che si lamenterà con te perché non abbiamo memoria. Così ha detto.”

***

In uno degli interventi di questa conferenza, quello di Don Jorge Alonso, ci è stato detto che non c’è solo un punto di vista per analizzare la realtà, ma che ci sono modi diversi di avvicinarsi ad essa. Noi vogliamo approfittare del fatto di avere qui, vicini, Jean Robert e John Berger, che di questo ne sanno qualcosa, per prendere in esame questa fondata affermazione e parlare dello sguardo.
O meglio di due grandi sguardi e dei privilegi di uno rispetto all’altro.
Mi riferisco allo sguardo verso gli zapatisti e allo sguardo degli zapatisti.
Si può attribuire alla loro formazione, alla loro storia, alla loro lucidità o a quella strana sensibilità che si rivela di tanto in tanto in alcune persone, però c’è una enorme differenza nel modo in cui ci guardano, a noi uomini e donne zapatisti, tra quelle persone che lavorano direttamente con le comunità indigene e quelle altre che ci guardano da lontano, cioè da un’altra realtà.
Non mi riferisco al fatto di guardarci in modo indulgente, critico, definitorio oppure no. Ma alla parte della nostra realtà che scelgono di vedere e all’attitudine con cui lo fanno.
Andres Aubry, la cui storia ci riunisce qui, aveva il suo modo di guardarci, cioè sceglieva una parte di quello che siamo per vederci. Le ultime due volte che lo vidi, descrivono bene il suo sguardo:
La prima, in una riunione privata insieme a Jérome Baschet, parlammo di libri e altre assurdità.
Aubry era disinvolto, eloquente, come tra amici.
La seconda, in quella tavola rotonda in cui lanciò una delle critiche più severe e fondate che io abbia mai sentito contro l’accademia, Andrés si voltava ripetutamente a guardare dietro di sé, alle sue spalle, dove alcune centinaia di compagne e compagni, autorità autonome, responsabili di commissioni e governi organizzativi dei 5 Caracoles ascoltavano in silenzio.
Andrés era nervoso, inquieto, come di fronte a giudici severi o al consiglio dei vescovi.
Dall’altro estremo del tavolo, lo guardai e lo capii.
C’è chi si preoccupa che la propria esposizione sia apprezzata dall’accademia. Andrés Aubry non dava molta importanza a queste cose. Era l’apprezzamento delle zapatiste, degli zapatisti, quello che lo preoccupava.
Era lo stesso Andrés Aubry che, in quella Marcia del Colore della Terra nel calendario del 2001, non guardava i padiglioni che erano stati eretti, uno di seguito all’altro, nella geografia che stavamo percorrendo. E neanche tutta quella gente che assisteva alle cerimonie.
Al contrario, guardava i piccoli gruppi che, dispersi lungo tutto il cammino e lungo le strade, si univano alla marcia anche solo per vederci passare o per mandare un saluto.
E quando stavamo aspettando che finisse il tira e molla, che ci facessero sapere se nel Congresso dell’Unione avrebbero concesso la parola a una donna indigena senza volto, Aubry ci diede una chiave di lettura che anticipava i calendari che sarebbero venuti in seguito, quando disse più o meno: “La marcia non è questo, la marcia è là, nelle sierras, nei piccoli villaggi, in chi non parla, lì succederanno delle cose”.
Andrés Aubry non ci guardava come fanno altre persone che lavorano nelle comunità o con gli indigeni. Non ci guardava come eterni evangelizzati, come eterni bambini e bambine (non importa che gli anni passino), come figli e figlie che fanno vergognare o inorgoglire i genitori. E neanche come specchi di sé stesso, appesi per nascondere la vita degli altri, delle altre, con cui entriamo in contatto, specchi che vengono mostrati oppure no, a seconda del pubblico o della congiuntura, con una specie di nuovo opportunismo. Come quelli, o quelle, che ascoltano l’intervento ben formulato o l’analisi lucida di un compagno o di una compagna, e danno un colpetto di gomito al vicino, o dicono apertamente: “Quella, o quello, l’abbiamo formato noi” (così, con maschilismo, con paternalismo), “non gli zapatisti”.
No, Aubry ci guardava come se i popoli indigeni fossero un maestro o un tutore severo. Come se fosse cosciente che la storia si può capovolgere in qualunque momento, o come se nelle comunità zapatiste questo fosse già successo, e fossero gli indigeni gli evangelizzatori, i maestri, e davanti a loro non valessero i dottorati all’estero, l’altezza della pila dei libri scritti, l’aria distrattamente europea o volutamente missionaria, nei vestiti e nell’attitudine.
Ieri è stato detto qui qualcosa che deve aver fatto rivoltare Andrés Aubry, nella terra che l’ha ricevuto. E’ stato detto che i nostri popoli sono ignoranti. Non so come ci sono rimasti, quelli che si considerano alunni di questi popoli “ignoranti”. Ma tornerò dopo su questo argomento.
Credo, quando lo vedo glielo chiederò, che Andrés Aubry vedeva quella parte dei popoli zapatisti che è rivolta verso l’interno. Come se questo popolo avesse deciso non solo di capovolgere il mondo ma anche la propria percezione, e avesse fatto sì che la propria essenza, ciò che lo definisce, guardasse verso l’interno, non verso l’esterno. Come se il passamontagna fosse un’armatura dai molteplici usi: forza, scudo, specchio esterno e, allo stesso tempo, coperta che protegge qualcosa in gestazione.
In altri, altre, ho riconosciuto questo modo di guardarci: Ronco, Don Pablo, Jorge, Estela, Felipe, Raymundo, Carlos, Eduardo, un altro, un’altra, nessuno, per citare solo alcuni di loro. Scusatemi se compare solo un nome femminile, però sembra che in questo tipo di sguardo non ci siano quote rosa.
Non tutti gli sguardi che ci guardano ci riconoscono e ci mostrano gratitudine come quello di Aubry.
Ci sono anche gli sguardi di quelli per cui siamo, chi l’avrebbe detto in pieno liberalismo!, una possibiltà di guadagno a breve, medio e lungo termine. Gli sguardi degli usurai politici, ideologici, scientifici, morali, giornalistici. Di questi sguardi parlerò in seguito.
Tutti questi tipi di sguardi, tanto diversi gli uni dagli altri, tanto differenti al momento di scegliere la parte di noi che stanno guardando, hanno senza dubbio qualcosa in comune: sono sguardi da fuori.
Inoltre, bisogna dirlo, hanno il privilegio di essere gli sguardi che arrivano a diffondersi e ad esser conosciuti in altre geografie e altri calendari.
In cambio il nostro sguardo, il nostro guardarvi, ha l’inconveniente (e allo stesso tempo il vantaggio, di questo parlerò poi) di poter essere conosciuto dall’altro, fuori, solo se voi lo decidete e lo permettete.
Se il nostro sguardo è di gratitudine, riconoscimento, ammirazione, rispetto, o coincide con quello che guardate voi, allora sì, va diffuso e conosciuto, va sottolineata la sua saggezza, lucidità, pertinenza.
Al contrario, se è uno sguardo di critica, che mette in questione, non importano le argomentazioni o le ragioni che si danno, bisogna farlo star zitto, tappargli la bocca, nasconderlo.
In questo caso si mette in evidenza che siamo inopportuni, intolleranti, radicali, si mostrano i nostri errori.
Anzi, non “i nostri”, ma “gli errori di Marcos”, “la fissa per la montagna di Marcos”, “l’intolleranza di Marcos”, “il radicalismo di Marcos”.
Ad una presentazione del libro “Notti di Fuoco e Risveglio”, una giornalista mi spiegava la feroce cecità e la continua calunnia contro la nostra parola, in ambienti che prima erano aperti e tolleranti. Mi ha detto “è che non capiscono questa cosa, di far corrispondere le parole ai fatti”.
Alla fine, quello che voglio evidenziare è che negli ultimi 3 anni, è il vostro sguardo nei nostri confronti quello che più si è conosciuto.
Sono state fatte foto, film, registrazioni, reportage, interviste, cronache, articoli, saggi, tesi, libri, conferenze, tavole rotonde con il vostro sguardo che ci guarda.
Non mi dilungherò molto nel mettere in luce dei dettagli, come il fatto che alcune persone hanno scritto interi libri sullo zapatismo senza essersi mossi da San Cristòbal de Las Casas, e si presentano dicendo di aver vissuto nelle comunità quando in realtà vivevano in questa fredda e superba città, o come il caso estremo di Carlos Tello Dìaz, che scrisse una supposta storia dell’EZLN con il materiale fornito dai servizi di intelligence del governo che, permettetemi di dirlo, non sono per niente intelligenti.
In cambio, voglio segnalare che il loro sguardo non solo è da fuori, e non solo sceglie un modo di guardarci (un punto di vista, ha detto Don Jorge), ma sceglie anche di guardare solo una parte di ciò che siamo.
Ieri ho detto che noi riconosciamo di non essere capaci (né vogliamo esserlo) di comprendere tutto lo spettro del movimento antisistemico in Messico.
Mi sembra che il vostro sguardo, quando ci guarda, dovrebbe riconoscere di non essere capace di comprendere tutto ciò che è stato, è, significa e rappresenta il nostro movimento.
Non vi chiediamo umiltà (anche se credo che a più d’uno non farebbe male frequentare un corso su questo tema), ma onestà.
Il vostro sguardo, scienziati sociali, intellettuali, teorici, analisti, artisti, è una finestra affinchè altre, altri, ci guardino.
In generale non so se è un fatto cosciente, che questa finestra sta mostrando solo una piccola parte della grande casa dello zapatismo, per questo non sarebbe male avvertire quelli che ci guardano attraverso di voi.
Alcuni anni fa, una compagna di città faceva il suo proprio racconto della storia dello zapatismo dal 1 gennaio del 1994 e diceva “Ci ho messo tutto!”.
Non era vero. Nel suo racconto dimenticò di precisare che comparivano solo i fatti e le attività pubbliche dello zapatismo, quelle rivolte all’esterno.
Non c’erano quelle cose, quei fatti, che non hanno parole per essere descritti: la resistenza quotidiana ed eroica nelle comunità, l’ostinata pazienza delle truppe combattenti, il silenzioso andirivieni dei governi organizzativi nei nostri territori. In fondo, non c’era lo zapatismo, quello che sostiene e dà senso a quello che si vede, ascolta, tocca, gusta, dice, pensa e sente.
So che la mia posizione come Sub mi dà un punto di vista privilegiato per guardarci. Però sono sincero di fronte a voi: non ce la faccio a comprendere tutti i dettagli e, come ci ha confessato il Ronco stamattina, non smetto di stupirmi e di meravigliarmi ogni volta, per quel poco che riesce a comprendere un cuore maltrattato, pieno di rattoppi e cicatrici che, per fortuna, non si chiudono.
Ve lo dico col cuore in mano: nello zapatismo, quello dello sguardo non è un privilegio individuale, ma collettivo. E aggiungo anche che nel nostro sguardo verso di voi, c’è sempre stato lo sforzo di cercare di comprendervi, non di giudicarvi.
“Perché?” è la domanda che cammina nel nostro sguardo quando guarda verso di voi.
“Perché dite questo, perché pensate così, perché fate queste cose?”
La verità è che quasi sempre le nostre domande rimangono senza risposta, ma va bene lo stesso, basta anche solo una risposta bianca come la calce, per tutte le altre opache come la sabbia. Dopotutto, sono sicuro che a noi rimarranno sempre più domande e dubbi, che certezze e risposte.
Ve lo dico, ma non con la pretesa di avere qualcosa in cambio. Credetemi, nella maggior parte dei casi, oltre che con rispetto, vi guardiamo con gratitudine.
E’ solo perché guardiate tutto quello che include, ed esclude, uno sguardo.

***

Se mi sto sbagliando, poi lo correggete, però credo che fu Paul Eluard a dire che “Le monde est blue comme une orange”, che il mio francese di sans papier traduce come “il mondo è azzurro come un arancio”.
Ho visto anche alcune foto del mondo, di quelle che vengono fatte dallo spazio. In effetti, la terra si vede azzurra e, sì, potrebbe proprio sembrare un arancio.
A volte, in una di quelle albe che mi vedono vagare senza riposo possibile, riesco ad arrampicarmi lungo una spirale di fumo e, da molto in alto, ci guardo.
Credetemi, quello che si riesce a vedere è così bello, che fa male a guardarlo.
Non dico che sia perfetto, né finito, né che manchi di buchi, irregolarità, ferite da rimarginare, ingiustizie a cui rimediare, spazi da liberare.
Però senza dubbio si muove.
Come se tutto il male che siamo e sopportiamo si mescolasse con il bene che possiamo essere, e il mondo intero ridisegnasse la sua geografia, e il suo tempo rinascesse in un nuovo calendario.
Come se un altro mondo fosse possibile.
Poi vengo qui e sento che qualcuno dice che i nostri popoli sono ignoranti.
Io riempio di tabacco la pipa, la accendo e allora dico:
Imbecille! Che onore poter essere alunno di tanta nobile ignoranza!
Grazie di cuore.

Subcomandante Insurgente Marcos.
San Cristòbal de Las Casas, Chiapas, México.
Dicembre 2007.

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