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III. TOCCARE IL VERDE.

IL CALENDARIO E LA GEOGRAFIA DELLA DISTRUZIONE.

Associazione Ya Basta Caminantes

In questo articolo si parla di:

  • 674/674 Messico

“Non basta sotterrare il capitalismo, bisogna seppellirlo a pancia in giù.
Così che, se vuole uscire, sprofondi ancor di più”.
Don Durito della Lacandona

Molte volte si è detto qui che il potere nordamericano si è esaurito, addirittura si sono alzate grida di giubilo per i funerali del capitalismo come sistema mondiale. Nella serie di necrologi in lista d’attesa per il funerale della storia sono stati inclusi: il socialismo, l’economia politica, il regime politico in Messico e la capacità militare dell’oppressore mondiale, nazionale e locale. Siamo stati invitati a non preoccuparci più dello sfruttamento, della rapina, della repressione, del disprezzo. Ci hanno esortato a discutere e a tollerare ancora per un po’ le conseguenze reali di questo incubo.
Però alla fine, gli avvisi di “Cessata attività” e di “In fase di demolizione” sono stati affissi su edifici che a noi donne e uomini zapatisti sembrano ancora non solo ben solidi, ma anche in piena attività e in buona salute – perdonateci la diffidenza, ma è frutto di un periodo di 515 anni.
Di solito la superbia è cattiva consigliera in questioni pratiche e teoriche. E’ stata lei che ha alimentato frasi come “non ci hanno torto un capello”, “i sondaggi mi danno un vantaggio di 10 punti”, “sorridete, vinceremo”, “Oaxaca non sarà Atenco”. Non sia mai che una simile superbia ci spinga a sederci, ad aspettare di veder passare il cadavere del nemico.
Piuttosto vorremo portare l’attenzione su alcune distruzioni concrete che si stanno operando sotto gli occhi di tutti e che, a differenza di quelle nominate sopra, possono essere verificate “in situ” (Caspita! Latino! Ora sì che sono molto accademico).
Più che fare una descrizione o un elenco, vorremmo soffermarci su un aspetto che di solito, rispetto a queste altre distruzioni, viene trascurato. E parlo delle distruzioni della natura come la deforestazione, l’inquinamento, lo squilibrio ecologico ecc…ma anche delle cosiddette “catastrofi naturali”. E dico “cosiddette” perché ogni volta è sempre più evidente che la mano sporca di sangue del capitale accompagna queste disgrazie.
Già in altre occasioni abbiamo segnalato che il capitalismo ha una tendenza dominante nelle relazioni sociali, che è quella di convertire tutto in merce; il profitto, nella sua produzione, circolazione e consumo, è il perno attorno al quale si articola la sua logica; e l’ansia di guadagno spinge anche alla “comparsa” di nuove merci, alla creazione o all’appropriazione di nuovi mercati.
Se insistiamo a dire che al capitale interessa il guadagno con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma, sempre e in ogni luogo, forse ci potrebbero accusare di essere troppo “ortodossi” o “classici” (cose di cui, come è stato evidente in questi 14 anni, sicuramente si può accusare il neozapatismo). Lo capiamo. Però vi preghiamo di lasciar perdere, almeno per un momento, la lettura di “Vuelta”, “Letras Libres”, “Nexos”, “TV y Notas” o le magistrali conferenze di Al Gore; lasciate in pace alcuni minuti i fantasmi dei Gulag e del Muro di Berlino; spegnete un momento i ceri accesi per il candidato “meno peggio”; mettete in “stand by” le analisi che non sanno fare la differenza tra una mobilitazione dall’alto e i movimenti; e provate a concedere che forse sì, è probabile - accettate questa supposizione o questa…supposta - in effetti potrebbe essere che sì, il capitale pretende convertire tutto in merce e questa in profitto. Passate in rassegna ora, con cura, ciascuna delle diverse distruzioni che il nostro pianeta sta soffrendo e vedrete come compaia il capitale, che sfrutta economicamente prima le cause della disgrazia e poi le sue conseguenze.

Tabasco e Chiapas. Le geografie e i calendari della distruzione.

A distanza di varie settimane da che i fiumi Grijalva e Carrizales hanno straripato, inondando il 70 per cento del territorio dello stato messicano del Tabasco, sembrerebbe che si stia entrando in una nuova fase: quella della ricostruzione e delle giustificazioni inaccettabili. Il bilancio fa rabbrividire: un milione di persone colpite e almeno 80.000 abitazioni distrutte. E in più il pericolo latente di un nuovo straripamento.
Nel governo del panista Felipe Calderón si è cercato di evitare una discussione seria sulle cause che provocarono l’inondazione, con la scusa di “non politicizzare la situazione”. Lo scorso 8 novembre il segretario del governo affermò: “un’emergenza è un’emergenza e bisogna risolverla, non trovare colpevoli”. E’ chiaro che non si possono trovare colpevoli se non si fa una valutazione seria di quello che è successo. In realtà, man mano che la gente si sente più sicura nella sua integrità fisica, la discussione su quello che è successo è il tema centrale se non delle tavole rotonde, perché non ci sono più tavoli, delle chiacchiere nei rifugi, nelle strade, nei campi. Allo stesso modo, nelle alte sfere delle diverse correnti politiche del paese la questione comincia ad emergere, non sempre in maniera disinteressata.
A questo punto è assurdo pretendere di non politicizzare quello che è successo, quando a monte di tutto esiste una serie di politiche pubbliche che, parallelamente alle cause naturali, hanno reso possibile la situazione in cui oggi si trova a vivere il Tabasco.
Felipe Calderón, al grido di “ho visto il film di Al Gore”, si è giustificato con una spiegazione molto di moda di questi tempi: il cambio climatico. “Non possiamo sbagliarci”, ha detto, “l’origine della catastrofe è l’enorme alterazione climatica”. Così che non è necessario cercare o individuare una responsabilità concreta. Sembrerebbe che, per l’autoproclamato presidente, il cambio climatico sia una tragedia quasi divina, che non ha niente a che vedere con il modello di sviluppo che è stato adottato e che si continua ad applicare. E’ molto probabile che questa inondazione abbia qualcosa a che vedere con il cambio climatico, ma quello che sarebbe importante delucidare sono le ragioni di quest’ultimo.
Cecilia Vargas, giornalista de “La Verdad del Sureste”, ci dice: “una delle cause dell’inondazione è la vendita di terre e la costruzione di case e centri commerciali in zone paludose, che devono essere riempite. A questo modo si tappano i vasi regolatori della città e si impedisce la circolazione e l’assorbimento dell’acqua. Nelle zone riempite si costruiscono centri commerciali come Wal Mart, Sam’s, Chedrahui, Fabricas de Francia, Cinèpolis (costruiti durante il governo di Roberto Madrazo e Manuel Andrade)”. O, come segnalano gli abitanti della zona, indigeni chontal: “gli anziani dicono che prima pioveva di più, o allo stesso modo, però non c’erano inondazioni. Perché ora sì? Dicono che è per le costruzioni che stanno facendo e che tappano le vie dell’acqua”. In un secondo momento, il signor Calderón è arrivato addirittura a dare la colpa alla luna, nel colmo della stupidità, per le tremende maree che avrebbe provocato. Eppure Marìa Esther, abitante di Villahermosa e sostenitrice della Otra Campaña, usa il senso comune – tanto estraneo agli “esperti” – e segnala uno strano fenomeno: “la Laguna de las Ilusiones, che si trova all’interno di Villahermosa, non è mai straripata ed il suo livello è aumentato di poco, a differenza di altri anni. Se l’origine fondamentale della catastrofe fossero state le piogge, questa laguna avrebbe dovuto straripare, e non è successo”.
In questo concordano la giornalista e Marìa Esther: “le inondazioni sono state il frutto di un crimine, perché c’è stato uno strabocco della diga Peñitas, quando già era al massimo della sua portata, ed è stata questa l’acqua che ha sommerso Villahermosa”. Citano anche un documento del Comitato Nazionale dell’Energia, del 30 ottobre, dove si segnala che “la diga Peñitas è al limite del collasso perché l’acqua viene destinata a generare elettricità solo durante la notte, mentre la base della produzione di energia elettrica è lo sfruttamento di gas, gestito da industrie private”. Dietro tutto questo c’è Repsol, la multinazionale spagnola che “dove mette piede, non torna a crescere l’erba”. Nel documento, inoltre, si avverte che “è necessario aprire le cateratte perché gli argini delle dighe hanno già raggiunto il loro livello massimo” e si fa richiesta alla Segreteria del Comitato Nazionale dell’Energia di sfruttare le centrali idroelettriche in maniera continuativa.

Di fatto, se si percorre Villahermosa, si constata che la zona degli hotel, il quartiere Tabasco 2000, e altre zone ricche della città non sono state colpite, perché lì negli anni passati si sono fatte opere per prevenire le inondazioni (cioè l’argine di contenimento del fiume Carrizal).

In mezzo alle catastrofi si misura la statura dei politici…e degli analisti. Questa occasione non fa eccezione. In mezzo a questa tragedia resta chiaro che i tre principali partiti politici che esistono in Messico condividono la responsabilità di quello che è successo. Tanto la presidenza della repubblica, nelle mani del partito di destra PAN, come il governo, nelle mani di un militante del corrotto Partito Rivoluzionario Istituzionale, come le presidenze municipali, per la maggior parte nelle mani del Partito della Rivoluzione Democratica, teoricamente di sinistra, hanno manifestato il loro profondo scollamento dalla società.
L’esempio più emblematico di tutto ciò è stato il 31 di ottobre, quando l’autoproclamato presidente del Messico, Felipe Calderón, arrivò in Tabasco per fare un sopralluogo e valutare la situazione. Vedendo che c’erano delle persone che stavano collocando dei sacchi di sabbia sul lungomare per creare un argine, decise di mettersi ad aiutare e per 15 minuti si mise al lavoro, insieme alla sua signora moglie e alcuni membri del suo gabinetto. Questo genere di atteggiamenti, tanto vicino alla maniera di governare del PRI, aveva in passato un forte impatto sociale e mediatico, però ora provoca solamente indignazione e rabbia.
E ancora peggio, vedendo che, di fronte agli sbuffi del governatore, c’era molta gente che stava solo a guardare, Felipe Calderón si accese di coraggio e minacciò quelli che stavano a guardare dicendo: “Scendete ad aiutare o vi faccio arrestare!”, e immediatamente ordinò ai militari di andare a prendere quegli uomini, affinché aiutassero a riempire i sacchi di sabbia. La gente non si mosse, lo sguardo assunse un espressione di disprezzo, nemmeno i soldati si mossero, capendo che quell’ordine significava buttare benzina sul fuoco; tutto questo fece sì che il supposto presidente battesse in ritirata e desse per conclusa la sua attività di ricostruzione; i suoi 15 minuti di lavoro non si convertirono nei suoi 15 minuti di gloria, ma di vergogna. Uno di quelli che stavano a guardare commentò poco dopo, alzando la voce e senza nessun timore: “è facile venire qui 15 minuti a farsi scattare una foto, a farsi riprendere dai telegiornali, a farsi un bagnetto di popolo e poi tornarsene a casa, a cenare e dormire comodamente, insieme alla propria famiglia”.
A distanza di varie settimane dall’inizio della tragedia in Tabasco, ciò che resta negli occhi dei suoi abitanti è la grande solidarietà che la propria condizione ha risvegliato nel popolo messicano. La maggior parte degli alimenti, delle bevande e delle medicine che sono arrivati sono stati raccolti tra la società civile messicana. I differenti aiuti che provengono dai differenti governi, quello federale, quelli statali o quelli municipali, sono invariabilmente etichettati con il logo che identifica il partito nel quale milita il funzionario che li distribuisce; invece l’aiuto della società civile ha come caratteristica l’anonimato. Non c’è molta differenza tra il governo federale e quello di Città del Messico, né a Felipe Calderón né a Marcelo Ebrard importa nulla della situazione delle persone colpite, l’unica cosa che gli interessa è farsi fare la foto: uno riempiendo sacchi di sabbia con l’abilità di un avvocato appena uscito da un’università privata, e l’altro auto-celebrandosi, con faccia da scemo, attorniato da telecamere e giornalisti a modo.
Però c’è un altro aiuto che è stato presente fin dai primi giorni nelle comunità più povere del Tabasco, quelle che confinano con lo stato del Chiapas: quello del popolo, da povero a povero. Ci narra un’abitante della zona: “C’è stato un interesse da parte dei compagni zapatisti di sapere come stavamo, in che condizione si trovava ciascuno di noi. Ci dissero che se avevamo bisogno di andarcene, potevamo contare sui municipi autonomi zapatisti come rifugi sicuri. Erano giorni difficili; non c’era possibilità di comunicazione, si interruppero le linee telefoniche e le strade, non c’era acqua potabile. In molti posti non c’era nemmeno la luce, scarseggiavano gli alimenti e l’acqua da bere, però, in mezzo a tutto questo, avevamo la certezza che potevamo contare su cibo e ospitalità nei municipi autonomi.
Non fu facile comunicare tra di noi, più o meno sapevamo chi era stato colpito dall’inondazione a seconda della sua ubicazione, sapevamo che c’erano persone vive, che stavano soffrendo questo disastro annunciato. Allora la risposta fu in stile zapatista: rapida, efficace e sicura. I compagni della società civile zapatista fecero un appello alla solidarietà nella cittadina di Tila, in Chiapas, e nei municipi autonomi. Si può dire che i tre camion carichi di aiuti che vennero da Tila, il 3 novembre, furono i primi che ricevette lo stato del Tabasco, quando ancora non c’erano comunicazioni telefoniche e nelle strade potevano passare solo i mezzi pesanti. Sapevamo che, insieme all’aiuto della società civile e della parrocchia di Tila, veniva l’appoggio delle basi zapatiste della zona nord. Sapevamo che i compagni avevano lavorato giorno e notte nei magazzini. E l’aiuto non fu solo opportuno, ma addirittura meraviglioso. Quando non si poteva cucinare nelle case, ma solo nei rifugi, ci arrivarono tre camion pieni di pozol (bevanda tipica degli indigeni, tanto in Chiapas, come in Tabasco), tostadas e tutti i nostri alimenti tradizionali, non come i diversi governi che ci davano delle orribili zuppe istantanee. In effetti, furono i primi ad arrivare e tutti ammiravano e ringraziavano un aiuto così opportuno e per giunta così umile, così dal basso, che ci ha portato il nostro cibo, quello di cui la gente già sentiva la mancanza, il pozolito, la tortilla. Poi, due giorni dopo, altri tre camion e così per molti viaggi”.
E ancora, piena di emozione, racconta: “Tuttavia, la regione di Tacotalpa era rimasta isolata dalle comunicazioni, lì non entravano neanche i camion pesanti. Le famiglie, basi di appoggio zapatista, ci dissero di non darci pena, che sarebbe arrivato un aiuto speciale per loro, e fu così che, nel mezzo della sierra di Tacotalpa, sotto gli occhi stupiti dei villaggi vicini, si vide scendere dalla montagna una lunga fila di più di 50 uomini, 30 donne e molti bambini, tutti basi di appoggio zapatista, che per due volte scesero, caricando sulle spalle per molte ore, sacchi pieni di mais, fagioli, tostadas, pozol, pinol, zucchero, arance, mandarini, limoni, zucchini, yucca, macal, acqua dei ruscelli di montagna, bollita e imbottigliata, per le compagne e i compagni del Tabasco…Questo grazie al Municipio Autonomo El Campesino. Però sappiamo che ci fu l’aiuto di altri municipi, che di buon cuore diedero quello che avevano, che come sempre è molto grande, molto coraggioso, capace di superare qualsiasi difficoltà, per quanto grande possa sembrare.
Per coloro che erano presenti fu qualcosa di meraviglioso vedere uomini, bambini, donne, anziani del colore della terra portare il necessario di cui avevamo bisogno, noi compagni di queste zone. Dopo arrivarono altri due furgoni con lo stesso tipo di aiuti. Però non venivano solo a dare gli aiuti, venivano anche ad ascoltare il nostro dolore, perché parlassimo di quello che stava succedendo, di come stavamo, delle cause che realmente avevano provocato tutto questo, di come stavamo vivendo in questa tragedia. Perché tirassimo fuori il nostro dolore, per cominciare a curarlo.
Non ci sono parole con le quali possiamo ringraziare tutti e ciascuno dei compagni zapatisti, che con buon cuore e vero senso di umanità condividono con noi il loro pane, la loro acqua, la loro lotta per costruire un mondo dove entrino molti mondi”.
Da allora, niente di tutto ciò è comparso sui grandi mezzi di comunicazione messicani. A parte la pista di pattinaggio sul ghiaccio, si è solo continuato a ripetere con insistenza che la classe politica si rimbalza le accuse di trarre guadagno dalla tragedia. Così, per esempio, il ministro del lavoro si è scontrato con il capo del governo di Città del Messico, chiamandolo “infame” mentre questo gli ha risposto chiamandolo “idiota”. Il bello è che entrambi avevano ragione.
Qui avete sotto gli occhi una differenza fondamentale e inconciliabile tra quello che cerchiamo noi, donne e uomini di quel movimento che ancora si chiama Otra Campaña, e quelli che si attaccano al lopez-obradorismo. Loro vogliono un mondo con piste di pattinaggio, spiagge artificiali, case a due piani e il glamour da primo mondo. Noi vogliamo un mondo come quello che scese dalla montagna zapatista per aiutare chi ne aveva bisogno, che è come dire un altro mondo.

***

Un po’ di Geografia e Calendario di base.
C’è nel Caribe, distesa al sole e come verde caimano, una isola sottile. “Cuba” si chiama il suo territorio e “Cubano” il popolo che lì vive e lotta.
La sua storia, come quella di tutti i popoli dell’America Latina, è un lungo intreccio di dolore e dignità. Però c’è qualcosa che fa sì che questa terra brilli. Si dice, non senza ragione, che è il primo territorio libero d’America.
Per quasi mezzo secolo, questo popolo ha sostenuto una sfida straordinaria: quella di costruirsi un proprio destino come Nazione.
“Socialismo” ha chiamato questo popolo il proprio cammino e motore. Esiste, è reale, si può misurare per mezzo di statistiche, punti percentuali, indici di vita, accesso alla salute, all’educazione, ad un’abitazione, all’alimentazione, sviluppo scientifico e tecnologico.
Cioè si può vedere, ascoltare, annusare, gustare, toccare, pensare, sentire.
La sua impertinente ribellione le ha fatto soffrire l’embargo economico, le invasioni militari, i sabotaggi industriali e climatici, i tentativi di omicidio contro i suoi leader, le calunnie, le bugie e la più gigantesca campagna mediatica di discredito. Tutti questi attacchi sono provenuti da un centro: il potere nord-americano. La resistenza del popolo cubano non esige solo conoscenza e analisi, ma anche rispetto e appoggio. Adesso che si parla tanto di funerali, bisognerebbe ricordare che sono già 40 anni che si cerca di seppellire Che Guevara; che a Fidel Castro lo hanno dichiarato morto già varie volte; che alla Rivoluzione Cubana le hanno pronosticato, fino a questo momento inutilmente, decine di calendari di estinzione; che nelle geografie tracciate dalle strategie del capitalismo selvaggio, Cuba non compare, per quanto si impegnino.
Come segno di riconoscimento, rispetto e ammirazione, più che come aiuto effettivo, le comunità indigene zapatiste hanno inviato un poco di mais non transgenico e anche un po’ di benzina. Per noi è stata la nostra forma di far sapere a questo popolo, che sappiamo che le difficoltà più pesanti, che sta sopportando, provengono da un centro emissore: il governo degli Stati Uniti d’America.
Come zapatisti pensiamo che dobbiamo tendere lo sguardo, l’orecchio e il cuore verso questo popolo. Non sia che, come succede a noi, si dice che il movimento è molto importante ed essenziale e bla, bla, bla; e quando, come in questo momento, siamo aggrediti, non c’è neanche una linea di difesa, né una denuncia, né un segnale di protesta.
Cuba è qualcosa di più dell’esteso e verde caimano del Caribe.
E’ un punto di riferimento, la cui esperienza sarà vitale per i popoli che lottano, soprattutto nei tempi di oscurantismo che viviamo in questo momento e che proseguiranno ancora per un po’.
Contro i calendari e le geografie della distruzione, a Cuba c’è un calendario e una geografia della speranza.
Per questo ora diciamo, senza urlare, non come un ordine militare, con sentimento: “Viva Cuba!”
Molte grazie.
Subcomandante Insurgente Marcos
San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Messico.
Dicembre 2007.

P. S. – Che conferma che la Luna è permalosa e racconta la leggenda dell’origine di Ombra, il guerriero:

OMBRA, IL SOLLEVATORE DI LUNE.
Lo racconto come lo raccontarono. Successe molto tempo fa. Non c’è un calendario che possa dir quando. Il luogo in cui accadde non ha geografia che lo indichi. Ombra, il guerriero, non era ancora guerriero, nè era ancora Ombra. Cavalcava la montagna quando gli dettero la notizia.
“Dove?”, domandò.
“Là, nella fenditura della montagna”, fu il vago riferimento che gli diedero.
Cavalcò Ombra, che non era ancora Ombra. La notizia percorreva le valli da un estremo all’altro:
“La Luna. E’ caduta. Così. Ha perso coraggio ed è caduta giù. Piano piano è venuta, come se non volesse. Come non guardatemi. Come non accorgetevene. Però noi sì che l’abbiamo guardata. Come si è fermata sulla montagna e poi è rotolata giù fino in fondo al burrone. Lì è stato. Chiaro lo abbiamo visto. Era luce, insomma. Era la Luna”.
Arrivò Ombra al bordo del precipizio, smontò da cavallo. Piano piano scese sul fondo. E lì trovò la Luna. La cinse con una corda. Se la caricò sulle spalle. Luna e Ombra salirono fino in cima alla montagna. Ombra sopra il cammino, Luna sopra Ombra. Arrivarono fino alla punta più alta. Per lanciarla di nuovo nel cielo, disse Ombra. Perchè di nuovo camminasse Luna per i cammini della notte.
Non voglio, disse Luna. Qui voglio restare, con te. Tiepida sarà la mia luce per te, nella notte fredda. Fresca nel giorno ardente. Tu mi porterai specchi, che moltiplicheranno il mio brillare. Con te resterò, qui.
Ombra disse no, il mondo, i suoi uomini e donne, le piante e gli animali, i fiumi e le montagne, hanno bisogno della Luna per vedere bene i propri passi nell’oscurità, per non perdersi, per non dimenticare chi sono, da dove vengono, dove vanno. Discussero. Se ne stettero lì a lungo. I loro bisbigli erano luci scure, ombre luminose. Chissà cosa si dissero ancora. Se ne stettero lì a lungo. All’alba, Ombra si spazientì e con la corda lanciò la Luna di nuovo nel cielo. Arrabbiata andava Luna, molesta. Lì in alto, nel luogo che gli dèi primigeni le avevano dato, restò Luna. Da lì Luna maledisse Ombra. Così disse:
“Da questo momento sarai Ombra. Luce vedrai ma non sarai. Ombra camminerai. Guerriero sarai. Non ci sarà volto per te, nè casa, nè riposo. Solo cammino e lotta. Vincerai. Incontrerai, sì, chi amare. Il tuo cuore parlerà nella tua bocca quando “ti amo” dirai. Però Ombra seguirai e mai incontrerai chi ti amerà. Cercherai, sì, però non incontrerai le labbra che sapranno dire “tu”. Così sarai, Ombra, il guerriero, fino a quando non sarai più.”
Da allora, Ombra è quello che è: Ombra, il guerriero.
Chissà quando e dove è stato e sarà.
Bisogna ancora fare questo calendario, bisogna ancora inventare questa geografia.
Bisogna ancora imparare a dire “Tu”.
Ancora manca quel che manca...
A domani.

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