In questo articolo si parla di:
Osteria Calcutta
scritto da Marina Valente
edito da Sensibili alle foglie
Alcune pagine del libro
Bjp perse le elezioni, confermando i pronostici della vigilia. Sonia Gandhi non pote’ governare in prima persona, in quanto non indiana, ma colloco’ i propri figli in posti di responsabilita’ e si fece rappresentare da Manmohan Sing, il teorico della liberalizzazione economica, che si diede a smantellare a colpi d’accetta le ultime strutture pubbliche ancora in piedi e doto’ il sistema bancario e assicurativo di tassi tali da rendere l’India appetibile per le potenze occidentali, ma che misero in ginocchio la popolazione.
Il Bengala e Calcutta restarono a Biman Bose e i muri si accesero di rinnovate falci e martelli. A Chanditala si fece festa, come per la Durga Puja. O come quando l’India aveva battuto il Pakisthan nel torneo di cricket del mese precedente, evento seguito, con nazionalismo partecipe, anche a Sarada Pally. Scuole chiuse, negozi chiusi. Sulla porta del Club qualcuno appiccico’ un cartello: “M.C. chiuso, per giorni tre” (forse, in lutto). Comunque tutti fuori, a ubriacarsi di quello che capitava. Auto stracariche di elettrizzati strombazzavano per i viottoli di fango e le stradine sterrate e piene di trabocchetti a forma di crateri lunari. Facendo uscire dai finestrini brandelli di bandiere rosse insieme al dito indice e al medio tesi e divaricati, in segno di vittoria. Sperai che, dalla sconfitta elettorale, la mafia del Trinamul avrebbe allentato un po’ la presa su Sarada Pally. Almeno per un po’. Vidi Prasad, con un fazzolettino al collo, scolarsi una Golden Eagle insieme ai “motociclisti”, al chiosco delle bevande. Al mio passaggio, uno di loro ripete’ la parola che mi era stata sussurrata dietro la porta di casa: “hospital”.
Non potevo piu’ fingere di ignorare la pericolosita’ della situazione. E nemmeno mandare persone allo sbaraglio. Persone totalmente (o “civilmente”) impreparate a un contesto del genere. O che si preoccupavano per i “violenti monsoni”.
Fino a quel momento, i volontari che erano arrivati a Chanditala avevano vissuto quella opportunita’ come un privilegio. O come la prima buona occasione che fosse stata loro offerta nella vita. Tra loro, nessuno aveva compreso (anche per le emergenze continue, la brevita’ del soggiorno o lo scarso inglese) che saremmo potuti diventare “soggetti a rischio”. Certamente non Giordano, che voleva mettere tutto in mano a Rifondazione, ne’ Claudio che, dopo la galera, aveva visto Chanditala come un Paradiso. Giulia, Benedetta e Vera avevano attribuito le difficolta’ alla borghesia di Calcutta (cioe’: a Mishra) pero’, anche se era stata Giulia a parlare di mafia per prima, non poteva immaginarne tutte le implicazioni. Era possibile che Davide avesse intuito qualcosa, sperando che “regolarizzandoci”, non solo la polizia, ma anche i differenti scagnozzi ci lasciassero in pace. Ma non sapevo dove fosse, per poterglielo domandare. Io stessa realizzavo appieno, proprio in quei giorni che, se la mafia non fosse riuscita a utilizzarci nel modo che riteneva piu’ vantaggioso, saremmo stati considerati anche noi dei “fuori casta”, persone che non avrebbero avuto diritto ad esprimersi, potenzialmente dannose (quindi: passibili di essere eliminate).
In Italia, erano finalmente emerse due insegnanti, pronte a partire. Scrissi loro di rimandare. Dovevo vedere come si sarebbero ridisegnati gli equilibri. Avevo suscitato sogni e speranze, insieme a compagni al momento impossibilitati a raggiungermi, o che non se la sentivano. Toccava a me, adesso, cercare di districarmi nella ragnatela sporca che avviluppava tutti e andava dallo slum agli alti vertici. Una ragnatela di corruzioni e interessi privati mantenuti sulla pelle di tanta gente, blindati dalla polizia di Stato e sorvegliati in armi dalla mafia. Capii perche’nessuna NGO europea lavorasse a Kolkata: era impossibile.
Ricapitolando tutto quello che, in tanti, avevamo scoperto via via, Sarada Pally brillava come l’esempio
L’elettorato non voto’“in favore” del Congress e Sonia Gandhi resto’ “straniera” anche dopo il 14 maggio. Il nuovo Parlamento si trovo’ subito nella difficolta’ di coniugare la propria vocazione e struttura interna centrista a piani di governo che ottenessero l`appoggio dei comunisti e dei piccoli partiti regionali, senza i quali non avrebbe ottenuto la maggioranza ne` avrebbe potuto mantenerla (i piccoli partiti regionali furono i veri vincitori delle elezioni). I quotidiani italiani della sinistra titolarono entusiasticamente il risultato delle elezioni generali: “L`India svolta a sinistra”; “L’India abbandona il nazionalismo”; “Dove arriva il Social Forum, arriva la democrazia”, con l’esempio correlato: “Dopo il Brasile: Lula, dopo Mumbay: Sonia Gandhi”. Scrissi a “Il Manifesto” una lettera aperta: “Cosa cercate di dare a bere alla gente? Acqua del Gange imbottigliata a 20 rupie per litro?”.
chiaro di una vergogna generalizzata.
Gli slums, a Calcutta, sono insediamenti mantenuti volutamente abusivi (percio’ non beneficiari di incentivi o servizi pubblici) perche’ le persone facciano ricorso alla mafia. Sono riserve dove, tra vacche magre ciondolanti, vengono trattenute persone che servono: come pretesto per lucrare aiuti dall’Occidente; come empori di pezzi anatomici di ricambio; come cavie per sperimentare farmaci; come vivaio di bambini per gli “affari” dei papponi di Mumbay; come riserva di voti in tempi elettorali (una innumerevole quantita’ di voti in cambio della promessa di un tetto riparato, o anche molto meno); come forza lavoro gratuita per qualunque “lavoro”; come schiavi per gli usurai e la mafia con cui tutti sono indebitati ben oltre la propria sopravvivenza; come custodi di armi e droghe da nascondere per qualche tempo (questo lo diceva il Funzionario e riguardava soprattutto gli slums a predominanza musulmana). Un sistema basato sul congelamento della consapevolezza di se’ e dei propri diritti, sull’analfabetismo, il terrore delle rappresaglie, l’illusione di potersi affidare solo a quei “protettori”, perpetuava se stesso con la complicita’ di tutti. Non si poteva spezzarlo se le persone non avessero deciso di farlo. Ma potevano deciderlo Santi Das, Raju, Anjia, Subajit, Robin Mondal? Le lezioni d’inglese erano frequentate avidamente, con madri ansiose di mandarci i propri figli per l’opportunita’ di sognare un futuro diverso almeno per loro. Persino queste erano state malviste da Mishra, che le aveva definite: “inutili”.
“L’unico occhio aperto sul mondo” (lo noto’ Alice), doveva restare l’immancabile televisore dei Clubs, dove, ai reclusi, e’ permesso seguire i tornei di cricket e i balletti delle stars di Bolliwood. Intrappolati tra la fame e l’alcool, le malattie e l’impotenza di riscatto, oltre che immobilizzati da un perverso e strumentale uso della religione: “non si puo’ cambiare il proprio destino”.
Karwarkar aveva visitato al M.C. centinaia di donne esauste, che lavoravano tutto il giorno per mantenere mariti ubriaconi e picchiatori. E centinaia di bambini denutriti, infetti, piccoli come neonati a tre, quattro anni. Anziani contorti dall’artrosi di un’esistenza di fatica, uomini e donne vecchi di vita a quarant’anni, cosi’ segnati da sembrare centenari. Una quantita’ di persone che avevamo cercato di aiutare a sperare, tentando di infondere fiducia in chi non conosceva il significato della parola. Ma loro avevano fatto di piu’: avevano insegnato cosa fosse la generosita’, quella vera: quella di chi non possiede niente e ti da’ tutto. A fronte di tanti “civilissimi” che hanno tutto, o quasi, e si fanno i conti, alla sera, di quanto hanno speso. Ci avevano regalato bellezza, amicizia, affetto. Erano stati capaci di accogliere anche le nostre paure, le nostre malattie, il nostro dolore, all’interno di case dove abitavano in dieci, in quindici, tra montagne di spazzatura e bambini nudi, scalzi, ma con sorrisi tanto radiosi da illuminare il mondo senza elettricita’. Offrendomi il passaggio in riscio’, Rabrindanath, con quel nome importante, che non sospettava chi fosse mai stato Tagore, aveva aggiunto un tocco d’artista, innescando la spirale della reciprocita’, che andava quotidianamente crescendo. Ma proprio questo era pericoloso: le persone povere non devono fidarsi di nessuno (men che meno di loro stesse), solo della mafia. “Sono” della mafia.
Dovevano restare: “numeri inconsapevoli, analfabeti, utili e ingenui, carne da macello a basso costo. Non dovevano osare il pensiero di poter cambiare la propria condizione. Inverosimile che si ribellassero o che potessero conoscere qualcosa in piu’ della loro fame.” Un urlo di Kali, la terribile, avrebbe potuto svegliarli tutti, ma la Dea era muta. E anche dopo “quella” vittoria elettorale, agli occhi della societa’ e del governo, non avevano voce. Di piu’: non esistevano. Erano: “nessuno”. Su “Statesmen”, uno dei quotidiani piu’ diffusi in Bengala, il portavoce del nuovo governo, insieme ai ringraziamenti al proprio elettorato, affermava:
“A Calcutta la poverta` non esiste. Ci sono solo alcune persone che non hanno lavoro, ma stiamo provvedendo per loro”.
…..Al M.C. sul riscio’ di Rabrindanath. C’era molta gente, avevano ripreso a venire in tantissimi, anche da altri slums. Era arrivato il monsone, portandoci le prime piogge e un vento di scirocco. Faceva un caldo impossibile, gli Indiani si spargevano addosso polvere di penicillina perche’ i pori della pelle si irritavano e provocavano infezioni.
Il medico fu puntuale e comincio’ il giro delle visite. Estha e Buddhadeb non c’erano, cosi’ era soltanto Sankha a spiegare la posologia. Ero contenta che Raj avesse deciso di venire per il suo cancro e che ci fosse Anand, fiero di dirmi che aveva deciso di curarsi la T.B.C. Robin Mondal aspettava col flacone vuoto, per farselo riempire di Polycrol e Pramit Pal era li’ per il consueto controllo della pressione. C’era la madre di Subonko, che stava a letto, giallo come un canarino indiano e con qualche linea di febbre. Mi mostro’ il referto delle analisi: epatite A. Mi guardava con ansia e grande dolcezza, aveva gia’ perso due figli per le conseguenze di epatiti trascurate. Kamala Maity e Runu Purukait, che neanche ce la facevano a stare in piedi, dovevano ricevere le vitamine. Punnima non era li’, ma sarebbe arrivata all’ultimo, come sempre, per l’orticaria o altri malanni, tanto per ricevere cure. Santi Das sedeva compunta, solo per essere presente e chiedere le batterie nuove per l’apparecchio. Una giornata come tante. Come tanti mongol bar e briaspoti bar (martedi e venerdi), da tanto tempo.
Mishra non c’era. Mi sembro’ strano perche’, stizzita o meno (e assolutamente inutile), comunque non rinunciava mai a presenziare. Saranno state le sei e trenta, entro’ con un vestito da festa. Con una faccia tesa. Con un’aria cupa, piu’ del solito. Ando’ a sedersi veloce accanto al medico. Comincio’ a sbraitare per mettere ordine in quella situazione che era sempre stata un po’ caotica, ma comunque funzionava. Mi passo’, sbagliando a leggere, una ricetta, perche’ trascrivessi la prescrizione sul registro e sulla scheda personale di un paziente e poi, con Sankha, cercassimo la medicina sul tavolo. Forse per il nervosismo che c’era nell’aria, per la tensione che metteva in circolo, sbagliai anch’io, non controllando, come facevo sempre, che cio’ che mi veniva detto corrispondesse al vero medicamento prescritto. Era quello che aspettava. Comincio’ a urlarmi contro, accusandomi di distribuire medicinali sbagliati, di mettere a serio rischio la vita degli ammalati, che avrebbero potuto morire tutti. Cercai di calmarla, ma continuava a gridare che davo medicine scadute e veleni, ricevevo montagne di soldi e li accumulavo per me, acquistando farmaci contraffatti che uccidevano le persone, com’era successo nei recenti scandali di cui aveva parlato il telegiornale. Usci’ di li’ come una furia, dicendo che li avrebbe requisiti casa per casa, per “farli analizzare”. Karwarkar non pronuncio’una sola parola, continuando a visitare il paziente di turno. Irruppero improvvisamente nel Club cinque o sei energumeni (riconobbi uno dei motociclisti, quello che aveva chiamato il taxi per il figlio di Reka Paramanik). Presero di peso il medico e lo fecero volare fuori dalla porta. Rovesciarono il tavolo e sul pavimento rotolarono gli ipotensivi di Pramit Pal, il cuore di Rayen Das, custodito in costosissimi farmaci coronarici, le possibilita’ di guarigione di Shila, che aveva la febbre altissima per un’infezione polmonare, il fegato malato di Subonko e la chemioterapia di Raj che aveva appena deciso di uscire allo scoperto. Mi sbraitarono contro una sequela di parole che non compresi nel significato letterale, ma che non lasciavano dubbi. Non mi toccarono, si limitarono a puntarmi contro un dito minaccioso e se ne andarono sgomitando tra la calca dei pazienti e delle tante persone richiamate li’ da tutto quel baccano. Lasciando un ambulatorio distrutto e un sogno infranto, un piccolo sogno che stavamo realizzando. Scoppiai a piangere.
La stanzetta si riempi’ di una folla immensa, mi sembro’ che duemilacinquecentotre persone, tutta Sarada Pally, fossero entrate in cinque metri per cinque, ammassate l’una sull’altra. Tutti mi si strinsero intorno. Sankha cerco’ di consolarmi a modo suo: disse che avrebbe rinunciato ai soldi dei tickets. Sukumar ando’ a chiamare Lalita Mondal: “Le hai sempre voluto bene, le hai sempre dato il cibo per prima” e io mi ritrovai circondata da un affetto impotente a mutare la situazione che mi faceva piangere anche di piu’. Lalita Mondal prese a cullarmi come una bambina, qualcuno porto’ un te’, qualcun altro dei biscotti, tutti (e veramente tutti) restituirono a me centuplicati quell’Amore, quell’incoraggiamento, quel minimo di aiuto che, in tanti, avevamo cercato di dare loro.
Chiamai Alice, al cellulare. Non so se, in quel momento, riusci’ a comprendere la gravita’ della situazione. Di sicuro non ci riuscirono le persone dello slum, ripetevano che sarebbe passata, domani sarebbe stato un giorno nuovo. “Perche’ le cose cambiano” disse Rotna, un concetto che le avevo ripetuto piu’ volte, cercando di farglielo entrare in testa, senza successo. Non fui capace di rispondere che non ci avrebbero piu’ permesso di stare li’, ma lo sapevo. Non mi lasciarono uscire finche’ Mishra circolava ancora nello slum, a fare incetta di ottime medicine che lei chiamava veleni, da “far analizzare” per poi “denunciarmi”. Quando la videro allontanarsi col bottino, si offrirono di accompagnarmi a casa. Rifiutai. Volevo camminare da sola e non mi servivano protezioni perche’ non avevo fatto niente che meritasse ritorsioni di alcun tipo. Ritornai a Udayan Park camminando lentamente, nel centro della via sterrata.
Il giorno successivo, Mishra torno’ ancora allo slum, insieme a Sionin. Disse che avevamo ricevuto 50.000 dollari, non sapeva da chi, per una truffa ai danni di Sarada Pally. Ripete’ che i farmaci avrebbero potuto ucciderli. Eravamo degli “assassini” potenziali e dei “ladri”. La prova: avevamo venduto allo slum vestiti ricevuti in dono proprio per loro. Ordino’ a Suleka di non restituire le Singer, se mai le avessi richieste, e completo’ il sequestro’ delle medicine. Poteva inventare di tutto, simulare di tutto. Indisse una riunione con Lalu, forse per preparargli il terreno, dal momento che lo slum era controllato dal Trinamul. Mi domandai se non avrebbe finito a confondere le idee a tutti.
Pierpaolo la chiamo’, lei gli menti’, poi finse che fosse caduta la linea. Diana mi suggeri’ di aspettare il ritorno, a breve, del dott. Samir Choudhury, presidente della NGO: CINI. Lo aveva conosciuto in Italia, durante un convegno. Le aveva fatto buona impressione e si era dichiarato disponibile ad aiutarci (se ci fossimo collegati con la sua associazione), sia per cambiare zona, sia se intendessimo rimanere a Sarada Pally (la soluzione piu’ difficile, aveva detto: “entrare in un territorio controllato da altri puo’ scatenare ritorsioni pericolose, anche per i volontari”).
Maurizio e Sergio volevano che rientrassi, stessi attenta e mi facessi coprire le spalle dal consolato.
Alice era preoccupatissima: “Ansia, ansia, ansia. Vorrei che tornassi subito qui. Ti chiedo di valutare bene tutto, ma se la vedi brutta non esitare neanche un momento, ti prego. Ho sempre pensato che ci sarebbe stata una presentazione qualora avessimo cominciato a essere fastidiosi. Di sicuro e’ la prova che sei brava, che la nave sta sulla giusta rotta. Comunque: sei indifesa . Ti prego, sii pacata e non contrastare in alcun modo. Non ti arrabbiare assolutamente mai, ricorda il mio gesto del letto. Ho molta fiducia nella tua grande capacita’ di capire e saperti muovere. Un po’ meno nella tua facilita’ di arrabbiarti. Mi manchi. Cosa posso fare ? Che altro??????????”.
Decisi per il tentativo con CINI. Alice scrisse ancora, disgustata: “Sono dei mostri. Ci siamo immersi sotto la superfice un po’ troppo a fondo per chi non sa amare ed e’ accecato dalla indicibile crudelta’ del potere”. Aggiungeva pero’ che, forse, in piu’ persone si sarebbe potuto fare di piu’. Era mancato lo slancio, ma la mia “estrema selettivita’ a priori” non lo aveva favorito (io la penso, tuttora, in un altro modo).
Il Funzionario mi prego’, per l’ennesima volta, di accettare il suo aiuto a trasferirmi altrove. Quanto a Sarada Pally: eravamo irregolari, non rischiava “per tutti loro”. “Ma tu ritornerai, e ti aspetto”, aggiunse, dandomi appuntamento per la sera.
La cosa piu’ importante era parlare allo slum. Smentire le falsita’, spiegare nuovamente il senso del lavoro svolto in comune, comunicare il dolore di essere cacciati da li’, se fossero riusciti a farlo. Alice mi ricordo’ di dire “alla nostra gente dimenticata” che: “lei li amava”.
A Sarada Pally, seppi che l’incontro con Lalu era stato rinviato e convocai un’ assemblea per il giorno seguente. Si fece tardi, dovevo avvisare il Funzionario che non sarei andata a cena con lui. Il numero del suo telefono, lo avevo lasciato a casa.
Per strada, tutto mi sembro’ tranquillo. Il tipografo mi fermo’: i nuovi ricettari erano pronti, risposi che sarei passata l’indomani. La signora che vendeva frittelle di riso mi guardo’ stupita, perche’ stavolta non gliene acquistai nessuna. Il chiosco dei motociclisti era chiuso. Strano, di solito restava aperto fino a mezzanotte. Udayan Park era deserta, non c’era neanche Priyanka che, a quell’ora, addormentava il fratellino, in luogo della madre che tornava tardi. Non c’era nessuno ed era buio pesto, anche perche’ l’ennesimo sciopero aveva fatto saltare la gia’ scarsa illuminazione della strada. In fondo, c’era un fanale acceso, qualcuno possedeva un gruppo elettrogeno. Nel fascio di quell’unica luce distinguevo l’ingresso, la fontanella all’angolo, i gladioli selvaggi, la spazzatura e le fogne a cielo aperto che correvano lungo i bordi del viottolo. Mi ricordai della volta in cui ad Alice era caduto li’ il coperchio dell’obiettivo della Canon. Era rimasto a vista e prendibile, ma l’autista del Funzionario si era rifiutato di aiutarla a recuperarlo: “Troppo pericoloso, li’ dentro c’e’ di tutto”. Era anche il cratere di scolo dove avevano ritrovato il piede, prima di portarlo al baba del tempio. Pensieri senza importanza mi passavano per la mente chissa’ perche’ ed ero ormai a un centinaio di metri da casa. Ma c’era troppa notte. L’auto scura era ferma davanti al portone. La vidi bene: un’ auto di lusso, inconsueta da quelle parti, chissa’ chi c’era dentro. Quando mise in moto in velocita’, me la ritrovai contro prima ancora di realizzare che aspettava me.
In un albergo appartato, dove il Consolato italiano tiene sotto protezione i connazionali “a rischio”, telefonavo a Roma gli ultimi avvenimenti. Subajit non sarebbe stato operato: Beathe continuava a essere irrintracciabile. I soldi per le adozioni: nessuno avrebbe potuto consegnarli. Estha sarebbe ritornato a Sarada Pally, pero’ non subito: l’ingresso dello slum era stato sbarrato dalla polizia. Avevo tentato anch’io, ma le guardie, in divisa e con tutta l’attrezzatura spianata, non mi avevano lasciata passare.
i residenti possono entrare e uscire”.
Mi dispiaceva non aver trovato il coperchio dell’obiettivo della Canon di Alice. Non lo avevo neanche cercato, per la verita’. Qualcuno invece aveva cercato me, al cellulare, perche’ ero in ritardo per la cena. Un piede era rimasto collegato al resto del corpo. Un autista timoroso aveva trovato il coraggio. Meglio cosi’.
Lo slum mi aveva fatto sapere di essere entrato in “assemblea permanente”. Mi vergognai di avere dubitato di loro. Erano venuti da me in tanti e una delegazione di donne si era spinta a bussare alla temutissima casa di Mishra, per reclamare il Centro Medico. Lei non aveva aperto la porta. La stessa notte di quel tentativo, qualcuno aveva forzato ancora i lucchetti dell’androne, ripetendomi, dietro l’uscio, il solito ritornello. Poi, in piu’ persone, avevano cercato, senza riuscirvi, di far scattare la serratura. Ero rimasta a Chanditala ancora una settimana. Facendomi portare il pranzo dal: “Don Giovanni’s cattering”. Mandando Alice nel panico. Spiegando i miei motivi ai compagni che volevano che tornassi immediatamente. E a Karwarkar, che mi ripeteva: “la prima volta e’ stato, forse, solo un avvertimento. La seconda non ti daranno il tempo di domandartelo”.
Volevo rimanere li’ fino alla naturale scadenza del visto che, tanto, non mi sarebbe stato rinnovato: questo era certo. Lasciai Chanditala per l’albergo segreto (dove restai tre giorni), soltanto quando le riunioni plenarie, a Sarada Pally, furono vietate “dal Club”, che le riteneva “sediziose”.
E solo quando Reka e Priyanka vennero a dirmi che Punnima non si trovava piu’ da nessuna parte e che, sicuramente, non era piu’ a Calcutta.
Prima di lasciare l’appartamento, feci alcune cose:
Distrussi tutte le medicine, insieme a Estha. Nessuno le avrebbe piu’ distribuite, se il proprietario le avesse trovate in casa, avrebbe potuto venderle, e c’era il rischio che potessero finire coinvolti i volontari italiani, che Mishra conosceva per nome e cognome. Un lavoro doloroso, che duro’ tutta una notte, e piangevamo entrambi.
Riempii due monumentali ciotole per Pitu e Puti, spiegando loro che avrebbero dovuto cominciare a procurarsi il cibo da sole, da qualche altra parte (magari dietro un buon ristorante, gliene consigliai uno).
Regalai a Priyanka e agli altri bambini di Chanditala tutte le Bisleri vuote che mi erano rimaste e tutto il cibo che c’era e sarebbe dovuto servire per la distribuzione. Quando la chiamai, per dirglielo, lei stava spidocchiando Minuscolo. Interruppe all’istante quell’operazione quotidiana e reciproca e non le parve vero. Dimenticai di chiederle cosa avesse voluto significare, quando aveva detto a Davide che: “c’era un anello blu nascosto da qualche parte”. Ma, quello, doveva essere un particolare, in una favola triste.
Il mobilio fini’ imballato, insieme al computer, nei magazzini di una compagnia di fiducia del Consolato. Su consiglio del Funzionario, che temeva potessero fermarmi in aeroporto, lasciai alla K.S.Company tutti i documenti del Centro Medico, carte e ricettari, riportando indietro soltanto qualche scheda sanitaria, le fotografie, le poesie e i disegni dei bambini. Le mappe dello slum.
Spedii per posta le chiavi al proprietario dell’appartamento, con una lettera in cui lo invitavo a guardarsi bene dalle persone che frequentava. Lettera inutile: era amico di Mishra, avrebbe creduto a lei, se pure non vi era coinvolto.
Andai da Mishra, per dirle tutto quello che avevo voglia di dirle, da tanto tempo. Lei divento’ isterica e chiamo’ il padre che, da Ramrajala, arrivo’ velocissimo, come avesse volato. Lalu, con parole e gesti di autorita’, prese le mie difese contro sua figlia. Ma queste cose in India non possono accadere e, se accadono, c’e’ del marcio sotto. L’ultima doppia faccia fu la sua, forse. A vedermi arrancare a quel modo mi consiglio’ un ospedale di sua fiducia, ma ricordavo troppo bene l’inquietante visita notturna alla Clinica di Karwarkar.
La sera prima della partenza (due giorni alla scadenza del visto), salutai Estha a Park street, sotto un acquazzone inaudito. Ricordo esattamente le sue parole: “E’ terribile, per me, pensare che cose simili possano accadere nella mia citta’”. Non lo rincuoro’ sapere che capitano ovunque, in differenti mondi, modi e contesti.
Gli consegnai tre cose per Sarada Pally:
le batterie nuove per Santi Das. Sperando che avrebbe trovato i soldi per quelle a seguire, e che nessuno le rompesse piu’ l’apparecchio;
un biglietto, con le parole che Alice mi aveva ricordato di dire alle persone dello slum e che firmai a nome di tutte e due;
una parte di un brano che conoscevo un po’ a memoria, scrivendolo sopra un tovagliolo del bar:
“(…)Non disperate, il potere rubato al popolo ritornera’ al popolo e, qualsiasi mezzo usino, la liberta’ non puo’ essere soppressa. Non cedete a uomini che vi sfruttano, vi disprezzano, che vi dicono cosa fare, cosa dire, cosa pensare, che vi irregimentano, vi condizionano. Non fidatevi di gente senz’anima, uomini macchina con macchine al posto del cervello. Voi, il popolo, avete la forza di creare ogni cosa, la forza di creare la felicita’. Voi, il popolo, fate di questa vita una splendida avventura”. (dal discorso finale di: “Il Grande Dittatore”, di Charlie Chaplin)
Non c’era contraddizione tra questa frase e le cose di cui avevamo ragionato tante volte, con le persone dello slum. Il “potere” al quale mi riferivo io era quello di esercitare il diritto di esistere e di essere se’ stessi, di risvegliare il proprio naturale istinto di liberta’. Liberi di opporre a qualunque potere politico ed economico, un’organizzazione umana basata sull’autogestione generalizzata e senza deleghe, forme di organizzazione cooperative e non gerarchiche. Il potere del “poter fare” e dell’azione di massa, che deve risiedere la’ dove esso si origina: nel popolo e niente altro che nel popolo, che potra’ essere felice e libero solo quando, organizzandosi dal basso verso l’alto creera’ esso stesso la propria vita.
L’ultimo viso che mi venne in mente, sul volo della Jordanian Airways, fu quello di Santi Das.
Il primo abbraccio che cercai, a Fiumicino: quello di Alice.
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