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Nel Brasile delle Olimpiadi - Reportage di Ivan Grozny

L’impatto dei grandi eventi sportivi nelle contraddizioni della società

Associazione Ya Basta Padova

In questo articolo si parla di:

  • 202/700 Brasile
  • 195/700 Diritti umani

Dopo aver raccontato fin dall’inizio l’impatto che i grandi eventi sportivi comportano sulla realtà brasiliana, Ivan Grozny si trova ora in Brasile per le Olimpiadi.

Il paese ossannato come una delle potenze emergenti del mondo multipolare, vive oggi profonde contraddizioni sociali, come tutti gli altri paesi definiti "progressisti" dell’America Latina travolti dalle brutali logiche globali del capitalismo finanziario attuale.
C’è stato un tempo in cui forse i governi brasiliani progressisti così come altri, dall’Ecuador al Venezuela, potevano spingere sull’accelleratore per cambiare a fondo scelte strutturali come l’estrattivismo, l’agrobusiness, il gioco dell’import export ma forse in cambio non si sarebbero potute sostenere politiche redistributive di carattere sociale. Ma il consenso si ottiene con la possibilità di far credere che si può garantire a tutti il raggiungimento del livello di vita incarnato dai beni che caratterizzano il nostro tempo presente.
E’ in questa perversa spirale che si è consumata l’ambivalenza brasiliana. Programmi sociali ma il permanere del sistema di corruzione collegato ai grandi centri di potere, accompagnato da una debolissima politica tributaria, che hanno lasciato intatti i poteri forti locali.
Così grandi opere come quelle che si accompagnano ai grandi eventi sportivi al prezzo della devastazione di interi territori, si accompagnano ad una dilagante repressione e violazione dei diritti umani.

Una realtà che Ivan si appresta a raccontare per permettere a tutti noi di andare oltre ai luoghi comuni e alle semplificazioni.

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Da Il Manifesto 22 luglio
L’innocenza perduta della città’ dei Giochi
di Ivan Grozny Compasso da Rio de Janeiro

Olimpiadi amare per gli abitanti delle zone più’ povere e violente di Rio.
Che con il "golpe" hanno perso anche quel poco che avevano.

Rio de Janeiro è una città dove l’innocenza si perde in fretta. I poveri perché esclusi, sfruttati e aggrediti, i ricchi perché rinchiusi nelle loro fortezze vivono una Rio tutta loro, intimoriti che qualcuno possa portare loro via ciò che possiedono. Qui la gente si mescola nelle strade e nei luoghi di socialità, ma ricchi e poveri è come fossero le rotaie del treno. Percorrono le stesse strade ma non s’incontrano mai.

La crisi politica, economica e sociale si sente eccome. Le conseguenze più dirette del «golpe» che ha disarcionato la presidente Rousseff sono state la sospensione di tutti quei provvedimenti che aiutavano i più in difficoltà. Lo stato, attraverso la bolsa familia ha prima aiutato queste persone che ora si vedono levare quei pochi aiuti di cui, di diritto, beneficiavano. Potere mandare i figli a scuola, ad esempio, o avere un supporto medico ora non è più possibile.

Tutto costa sempre di più. dai trasporti al cibo. Il costo del latte è cresciuto di sei volte in tre anni. I mezzi pubblici, nonostante le tante proteste, restano un nervo scoperto perché in tantissimi sono costretti a servirsene, ma non sono alla portata di tutti. Così, soprattutto nella zona nord della città, dove vivono essenzialmente i più poveri, non è inusuale vedere coloro che poi troveremo raccogliere lattine sulle spiagge della zona sud, seguire i binari del treno per arrivare fino al centro da dove poi, sempre a piedi, raggiungeranno la loro destinazione. Un viaggio in pratica. Dei migranti in cammino dentro la propria stessa città.

Il casermone della polizia

Arrivando in metropolitana alla favela di Manguinhos è tutto un brulicare di favelas. Arrivati la prima cosa che non si può non vedere è la cosiddetta «città della polizia», una caserma di dimensioni gigantesche che costeggia proprio i binari dove tanti disperati sono in cammino.

Per entrare nella favela bisogna costeggiarla, ma non a piedi. È la zona più pericolosa, dove gli «assalti», come sono chiamati qui, sono all’ordine del giorno. Un paradosso. Percorsi in moto taxi questi settecento metri, una grossa strada, poi la favela. La polizia è all’entrata, come ci fosse una dogana. È una postazione informale, gli agenti chiacchierano, danno uno sguardo allo smartphone ma osservano tutti quelli che transitano. Dentro, tra i vicoli, grossi pezzi di cemento. Sono messi per impedire ai mezzi pesanti dell’esercito di accedervi.

È come in guerra. Perché qui, anche se non dichiarato, c’è un conflitto in corso che va avanti da molti anni e proprio con l’assegnazione dei grandi eventi sportivi ha cominciato un lavoro molto sporco, che ha visto di fatto i più poveri aggrediti con la scusa della guerra al narcotraffico e la sicurezza.

Ma proprio a Manguinhos è evidente la stretta relazione tra chi spaccia e chi dovrebbe impedire quest’attività. Perché non può essere che se c’è un certo gruppo criminale a gestire gli affari, c’è la pace, se invece è un altro si scatena l’inferno. E quando questo si verifica non viene risparmiato proprio nessuno.

Morire per un campo di calcio

Luogo simbolo che sintetizza lo stato delle cose è il campo da calcio di Manguinhos. È in mezzo alla favela, dove c’è una specie di piazza. Ai quattro angoli del campo, all’esterno, su dei tavoli gruppi di tre o quattro ragazzi che fumano maconha e osservano quello che succede. Qualcuno è armato. C’è la pace ora, è tutto tranquillo. Per fare qualche foto del campo bisogna chiedere loro il permesso. Ci arrivo con la madre di Christian, che ha perso la vita proprio mentre stava giocando a pallone.

Questo campo detiene il triste record di caduti mentre si gioca. Quando l’esercito entra, pesantemente armato e senza accordi con chi controlla il mercato della droga, sceglie volutamente di colpire i civili anche per mettere le persone delle comunità contro i trafficanti e agevolare un passaggio che altrimenti non si sarebbe verificato.

Di storie così ce ne sono tantissime. Molte delle madri che hanno perso i loro figli lottano per avere una giustizia che in partenza sanno che non otterranno ma sono sempre di più e cominciano a farsi sentire anche da quella parte di opinione pubblica che certe cose non le vorrebbe ascoltare.

I grandi eventi sportivi non hanno portato alcun beneficio alle comunità di qui e anzi hanno reso la presenza delle forze militari ancora più pressante. E poi ci sono le grandi opere, come viadotti e le nuove linee della metropolitana. Sono le uniche opere fatte per rimanere, ma non ancora ultimate.

Marlon è figlio di Mateus e Tina. Loro sono nati nella Città di Dio, a pochi km da dove li incontro. Cresciuti poveri e in mezzo alla violenza come tutti quelli che nascono li, si innamorano e decidono di fare un solo figlio in modo da potergli dare tutto il necessario per offrirgli una vita migliore. Riescono addirittura a mandarlo all’Università. Si laurea in pochi anni come ingegnere civile e trova lavora presso un grande cantiere, proprio a Tijuca, dove si trova il villaggio olimpico. Il ritardo delle consegne e la poca sicurezza delle condizioni di lavoro fanno il resto. Marlon oggi è tetraplegico, costretto a letto per tutta la vita a causa di un volo di diversi metri.

Il suo non è un caso sfortunato, non è il fato che ha deciso ma una condizione generale, complessiva, fatta di sfruttamento e corruzione, abusi e ingiustizia. I suoi genitori stanno portando avanti una causa contro lo Stato e la società che aveva (in subappalto) i lavori.

È sempre più difficile per chi ha meno, trovare l’opportunità di migliorare la propria condizione perché anche quando si ottiene l’occasione c’è sempre qualcuno che ricorda da dove si è venuti.

Non ne rimarrà’ un tubo

La città, come si dice in questi casi, si sta preparando al grande evento. I Giochi a distanza di due anni dalla Coppa del Mondo. Ed è tutto un brulicare di gazebo e strutture mobili montate con tubi innocenti. Da Tijuca, dove si trova il villaggio olimpico, passando per Copacabana, il Maracanà e giungere poi fino a Deodoro, dove c’è un sito, sede dei Giochi, si vedono solo enormi capannoni, transenne e tribune prefabbricate. E soldati.

Operai senza sosta lavorano nei punti più visibili della città, che è stata come impacchettata, da teli in pvc che dall’aeroporto fino al centro delimitano le pareti delle grandi arterie autostradali. Le immagini delle grandi spiagge e i loghi dei Giochi in bella mostra impediscono di vedere cosa c’è dietro. Il Compleixo da Marè, ad esempio. O altre piccole e grandi favelas che si arrampicano sui morri della città. Un velo colorato che copre le presunte colpe di quella che resta, nonostante tutto, la cidade maravilhosa.

Ma quando i Giochi saranno finiti, tutto sarà smontato, d’innocente qui non rimarrà neppure un tubo.


Rio 2016 Olympics

di Ivan Grozny per RadiciFutureMagazine
Restyling è la parola d’ordine. Ma siccome non tutto si può fare, la soluzione è coprire ciò che potrebbe disturbare la vista di coloro che giungeranno qui per seguire i Giochi. A Rio non c’è un cantiere, dove non si lavori. Sia negli impianti dove si svolgeranno le gare che nei luoghi dove si pensa si concentreranno più persone. La metro ad esempio è tutta un brulicare di operai e tecnici che cercano di finire in tempo i lavori. Per quanto riguarda gli impianti sportivi è l’esaltazione del “tubo innocente”.

Non c’è nulla, in pratica, che non sia costruito con questo tipo di tecnica, quindi è palese che una volta finita la rassegna, tutto verrà smantellato. Dei teli in pvc, con i loghi e i colori dei Giochi sormontano tutte queste strutture. E’ una corsa contro il tempo. Lo stadio Joao Havelange, l’Olimpico, sembra che sia stato ultimato. Sembra perché lo si può vedere da una certa distanza, l’accesso è vietato. Il Maracanà è circondato da Gazebo e strutture mobili e si lavora notte e giorno perché da fare ce n’è molto.

La stazione Maracanà della metro è stata ultimata quando in realtà avrebbe dovuto essere pronta già per la Coppa del Mondo. La linea nuova della metro, quella che dovrebbe portare fino a Barra da Tijuca, a ridosso del Parco Olimpico, sarà aperta a Giochi in corso. Il traffico in questa metropoli è a dire poco impegnativo, quindi c’è molta preoccupazione per quanto riguarda l’impatto di tanta gente e tanti mezzi sulla viabilità. Dall’aeroporto a Barra da Tijuca sono davvero parecchi km. Di fatto è “l’evento degli eventi” che sancisce una importante trasformazione della città. Barra da Tijuca, infatti, non è mai stata considerata Rio, da chi vive qui. Un quartiere davvero lontano, dal centro e dalle spiagge come Copacabana e Ipanema. E’ oltre la Rocinha, la favela più grande e popolosa del latino america.

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Campo de futebol em Manguinhos

Sono parecchi km di strada costiera prima di arrivarci. Una sola arteria, per quanto veloce, arriva fino qui. Sempre al limite del congestionamento, si prevedono giorni difficili in questo senso. Ovunque si stanno allestendo info point e altre strutture ma la cosa che salta all’occhio più di tutto è la militarizzazione della città. Ovunque esercito e polizia. Nell zona Nord della città, dove difficilmente turisti e operatori delle varie delegazioni si spingeranno, la violenza è arrivata a un livello che supera di gran lunga l’inaccettabile.

Se i diritti umani qui non hanno mai riscontrato troppa fortuna, oggi è anche peggiorata la situazione. Uccisioni sono all’ordine del giorno. Nelle favela muore gente ogni momento. La maggior parte per mano di esercito e polizia. Questo Paese detiene il record mondiale di morti ammazzati per le strade, da coloro che dovrebbero proteggerla, la gente. Se si va a Manguinhos ad esempio, il clima è quello di una città sotto assedio, sotto coprifuoco. Si cammina circospetti perché tutti osservano se entra qualcuno che non è della comunità.

Qui ci vivono circa sessantamila persone. Dentro questo pezzo di Rio c’è la città della polizia, cosiddetta perché è una caserma di dimensioni enormi. Nonostante la presenza di soldati e militari è uno dei quartieri in cui a farla da padrone sono i gruppi criminali che controllano i vari traffici. Tutto sotto l’occhio vigile delle forze armate, che non intervengono però lasciando fare a chi spaccia. Paradossalmente però, se chi detiene il commercio illegale di stupefacenti opera indisturbato, chi rischia davvero la vita sono le persone comuni, quelli che qui ci vivono. E a Manguinhos c’è, in mezzo alla comunità, l’unico campo di pallone della zona. Qui però stazionano i capi dei gruppi criminali quindi non è inusuale che si verifichino sparatorie con la polizia che ogni tanto fa finta di intervenire quando è risaputo che i traffici continuano proprio perché la legalità è inutile, qui non ha presa, e i poliziotti si lasciano corrompere volentieri.

I ragazzini giocano in questo campo quando tutto attorno è un clima a dire poco irreale. Il campo di calcio della Manguinhos detiene un triste primato che è ricordato con una targa all’ingresso: Sono una decina di ragazzini rimasti uccisi qui, mentre giocavano a pallone. L’ultimo qualche settimana fa. Ci sono solo tre ragazzini quando vado a vedere il posto.
Giocano spensierati, come qualsiasi loro coetaneo nel mondo. Ma pare un paradosso che nella città dove sarà celebrato lo sport si muoia così, tirando un calcio a un pallone.

Foto: © M.Franke (CC BY 2.0) . © riodepaznews (CC BY-SA 2.0)

22

Luglio

2016

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